C`è una strofa, in una canzone di Neil Young, che seppur semplice (e per i grandi letterati potrà sembrare anche banale) m`ha sempre affascinato, perchè riesce a dipingere (ancor più che a descrivere) la bellezza di un posto nel quale si incontrano, e si scontrano, mondi diversi:
«Where the sun hits the water / And the mountains meet the sand / There's a beach / That I walk along sometimes ... »
Cosa c`entra la canzone di Neil Young con “Chamber Rites”, direte voi?
Poco e molto, dipende dall`ottica con cui si guardano le cose.
Il fatto è che questo CD, come la spiaggia di quella canzone, rappresenta un punto di incontro e di scontro fra mondi diversi e, in quanto tale, un luogo dove si possono sviluppare grandi passioni.
Il pianoforte di Fabrizio Casti e il computer di Elio Martusciello appartengono a due epoche diverse e ben distinte, quella che ci stiamo lasciando alle spalle e quella nella quale stiamo entrando. Noi che abbiamo la fortuna, e la sfortuna, di vivere questo passamano di testimone, di conoscere i difetti (molti) e i pregi (pochi) dell`epoca che ci stiamo lasciando alle spalle e di presagire i difetti (sempre molti) e i pregi (ancora pochi) dell`epoca nuova che sta iniziando, proprio noi siamo il pubblico più indicato ad apprezzare le mille contraddizioni e la naturale imperfezione che animano questo duetto. Nel momento in cui il rock, la musica che ha rappresentato la ribellione di un`intera generazione, sta ormai diventando accademica, e sta per essere sepolta in una pania di formalismi, proprio da due rappresentanti dell`accademia nasce questo lavoro che sembra minare le basi dell`accademia stessa, o almeno di quella che era l`accademia novecentesca.
Trovo però che in questo disco non c`è solo il confronto e lo scontro di due mondi, ma pure il tentativo di trasportare l`uno nel contesto dell`altro, facendo da una parte un passo avanti e dall'altra un passetto indietro, nel tentativo di unirli in matrimonio, di fare famiglia.
Un tentativo estremamente difficoltoso. Pensate con quanti sospetti e diffidenza i due mondi si osservino ancora a vicenda. Solo qualche giorno addietro mi è capitato di ascoltare un giornalista che diceva (esprimendo un pensiero piuttosto diffuso e raccogliendo consensi): «Quello era uno strumentista che sapeva il fatto suo, aveva tecnica, sapeva suonare il suo strumento e sapeva ricavarne della musica di qualità , non certo come fanno molti che al momento usano un computer ... ». Faccio notare che detto giornalista, nello svolgimento della sua attività , utilizza ormai i computer e le loro applicazioni quotidianamente!!!
Se si tratta di un matrimonio riuscito non sta a me dirlo, solo il tempo può essere un giudice obiettivo, io so soltanto che si tratta di un tentativo encomiabile.
In tutto questo vedo il senso di un disco che inizia come un notturno di Chopin e termina come una colonna sonora per spazi alieni.
La preparazione del pianoforte e il design del computer convergono sempre su soluzioni fresche e innovative che in Chamber Rites, con l`ugola di Barbara De Dominicis che si esprime a più voci, sfiorano le forme canzone (la De Dominicis è presente, in forma più invisibile, anche in Oblivion). Non mancano certo memorie di un passato space, cosmico, elettroacustico, classico, psichedelico e progressive, ma tali forme subiscono costantemente una rilettura (o meglio rielaborazione) in grado di renderle mal distinguibili.
Non posso certo affermare che si tratta di un lavoro unico nel suo genere, sicuramente in tempi recenti ne abbiamo ascoltati altri, ma indubbiamente si tratta di uno dei più coinvolgenti e riusciti oltrechè di uno dei più immuni dalla pestilenza formalista.
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