Al di fuori del paesaggio urbano, in una coltre di desolazione, frattaglie di sostanze organiche cospirano nell`oscurità . Difficile sentirsi attratti da un simile scenario, ma altrettanto semplice esserne rapiti.
Per cinque anni i canadesi Arc si sono dedicati assiduamente all`esperienza live, elaborando continuamente le loro creazioni attraverso la tecnica dell`improvvisazione, che fin dalla nascita - era l`anno 2000 - sul palco dell`Ambient Ping Ring (manifestazione ambient-sperimentale che si rinnova di anno in anno in Toronto) costituisce il loro unico e solido punto di riferimento, e ne fissano alcuni momenti su sparse pubblicazioni in cd-r edite da etichette quali Piehead, Worthy, e la loro Arcolepsy Records.
Questo lavoro è dunque una sorta di debutto, inserito nel catalogo della A Silent Place, etichetta italiana imparentata con la dirimpettaia Smallvoices e presentandosi come una rielaborazione di non meglio identificate registrazioni dal vivo, confermando così l`attitudine del trio ad assecondare la propria spontaneità .
Quattro brani sotto forma di suites, il cui tema dopo essere appena accennato nelle prime battute, viene immediatamente riassorbito sotto una coperta di suoni dilatati, trame vischiose e sovrapposizioni di strati in cui ogni tinta perde la sua essenza originaria e pure gli strumenti sacrificano la loro identità in nome di una fusione omogenea e ipnotica. L`attacco delle percussioni si percepisce appena, allontanando così una fin troppo prevedibile deviazione in ambiti etnoderivativi, ma non l`evocazione di rituali tribali dettati dall`ossessiva ritmica di Chris Kukief.
Il lavoro in studio ha senza dubbio contribuito ad incrementare la circolarità dell`esecuzione ed offre l`opportunità di apprezzare la metamorfosi dei suoni: un arpeggio di chitarra diventa il drone su cui ramificano voluttuosi riverberi, e da qui, in onde sempre più lunghe, lo spazio si satura di presenze, ombre, e nessuna via d`uscita.
Ciò che colpisce è la delicatezza delle loro evoluzioni, anche nei crescendo quasi impercettibili che solo nel finale del primo brano sembra condurre ad un`improvvisa e momentanea perdita di controllo tuffandosi in una sorta di tenue delirio sonico bruscamente abortito con la complicità di una (forse un po` maldestra) decisa virata sulla manopola del delay. La sostanza è simile anche nei brani successivi, un continuo inseguirsi fra asperità dense e mai propense alla cristallizzazione, un fluido che scorre, s`ingrossa ed avvolge con sostanziale compostezza.
Gli evidenti richiami agli anni settanta più visionari (Popol Vuh, Ashra Temple, Tangerine Dream) tolgono riferimenti temporali a questo album al quale i tre autori chiedono perentoriamente di abbandonarsi fino alla totale assuefazione. Questo il motivo per cui “The Circle Is Not Round” rischia di venire snobbato, ma non vanno sottovalutati il gusto e la passione con cui Aidan Baker e soci si dedicano alla materia, forti di un`esperienza collaudata. L`auspicio quasi obbligato è di poterli incontrare nella loro dimensione naturale, quella della performance live.
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