The Blue Notes (con un'intervista a Roberto Bellatalla)    di etero genio (no ©)




apartheid
In questo articolo non leggerete nulla a proposito delle note dissonanti tipiche del blues, nè della storica casa discografica jazz (1), nè del combo disco-soul che negli anni `70 accompagnava Harold Melvin, ma leggerete di uno dei più sfigati (e più grandi) gruppi jazz di tutti i tempi... ammesso che un regime di `apartheid` nel groppone prima ed una condizione di profughi poi possano essere considerati solo semplice sfortuna. Il gruppo dei Blue Notes (2) si formò infatti in Sudafrica all`inizio degli anni `60 per iniziativa del pianista Chris McGregor (1936-1990) e, nella sua formazione stabilizzata, comprendeva il trombettista Mongezi Feza (1945-1975), i sassofonisti Dudu Pukwana (1938-1990) e Nick Moyake (1930(?)-1966), il contrabbassista Johnny Dyani (1945-1986) e il batterista Louis Moholo (1940). Oltre ai problemi derivati dal suonare una musica `nera` come il jazz in un paese governato da una dittatura razzista, qual era il regime sudafricano, i Blue Notes dovevano affrontare anche quelli relativi alle leggi dell`apartheid (3) che imponevano una rigida separazione fra bianchi e neri. Il gruppo era infatti a formazione mista, essendo McGregor un bianco laddove gli altri componenti del gruppo erano tutti di colore.
Nel 1964 il gruppo ebbe la possibilità di suonare in Francia al festival jazz di Antibes Juan-les-Pins, ed è così che i musicisti decisero di rimanere in Europa dove iniziarono una vita da profughi che li portò dapprima in Svizzera e poi, in gruppo o singolarmente, in Argentina, Danimarca, Svezia, Gran Bretagna.... Il solo Moyake non potè seguire gli altri nelle loro peregrinazioni a causa delle precarie condizioni di salute, e fu costretto a ritornare in Sudafrica dove morì entro un breve periodo a causa di un tumore al cervello. E` proprio in Gran Bretagna, dove si stabilirono alla fine degli anni `60 per una questione di lingua, che svolsero un ruolo fondamentale di collegamento trasversale tra i vari settori della musica contemporanea. Suonarono infatti sia con gli improvvisatori più radicali sia con quelli più moderati, ma soprattutto parteciparono a numerose realizzazioni pop-folk-progressive contribuendo non poco all`abbattimento di steccati e barriere.
Blue_Notes_Zurigo_1964 Questo loro disattendere le regole fu apprezzato nell`ambiente dei musicisti, che a volte li elevarono al rango di veri e propri maestri, mentre fu guardato con distacco dal pubblico dell`improvvisazione radicale, con sospetto da quello del rock e con riserva da quello del jazz-rock, per non dire di quella critica ottusa che non guarda alla musica come ad un fattore sociale e culturale ma la considera alla stregua di un insieme di formule matematiche (o di zeri nelle banconote).
E se la fortuna baciò parzialmente i singoli musicisti, che parteciparono anche a innumerevoli progetti, le vicende del gruppo continuarono ad essere circondate dalle avversità . “Very Urgent” del 1968 fu l`unico disco con il quintetto al completo a venire pubblicato - come sesto elemento al posto di Moyake c`era un altro musicista sudafricano di nome Ronnie Beer - ma uscì a nome del Chris McGregor Group. Il disco venne pubblicato dalla Polydor, che non credo si sia sfegatata nella sua promozione, e nonostante la produzione di Joe Boyd (4) passò praticamente inosservato. Fu così che un secondo disco già pronto rimase uccel di bosco mentre il gruppo andò incontro ad una inevitabile diaspora. Una prima riunione avvenne in occasione della morte di Feza, quando i quattro Blue Notes superstiti suonarono ininterrottamente e spontaneamente per 3 ore e mezza in ricordo del trombettista, e la registrazione di quell`evento venne parzialmente diffusa su un doppio LP della Ogun (“Blue Notes For Mongezi”). Mongezi_Feza In concomitanza con questa ricongiunzione il gruppo riuscì anche a esibirsi in alcuni concerti e sempre la Ogun pubblicò un “Blue Notes In Concert - Volume 1”, ma si trattò una cosa alquanto precaria e un altro volume non venne mai pubblicato, se non 20 anni dopo quando un terzetto si riunì nuovamente in `tenuta funebre` per rendere memoria a Johnny Dyani (“Blue Notes For Johnny”). La successiva scomparsa di McGregor e Pukwana avvenne quasi in contemporanea, rendendo vana anche un`ultima ricongiunzione a due, ma Louis Moholo (al momento l`unico superstite) trovò egualmente il modo di commemorare quell`epopea storica - tale era stata la vicenda dei Blue Notes - attraverso la formazione di una Dedication Orchestra dedita alla rilettura di alcune pagine lasciate ai posteri da quegli straordinari musicisti (in tale impresa valse molto l`aiuto di jazzisti inglesi come Keith Tippett e Steve Beresford). Quindi, dal punto di vista discografico, si è trattato di una vicenda dal raccolto fin troppo magro, appena sei dischi in più di vent`anni, ma non vi preoccupate perchè ci sono poi tutte le varie collaborazioni e i vari progetti dei singoli musicisti, e a dover seguire per filo e per segno ogni cammeo disseminato da una simile congerie c`è da diventar matti. Se poi dovessimo andare a ricercare tutte quelle apparizioni, sui palchi e altrove, che non hanno lasciato memoria (disco)grafica ne verrebbe fuori una novella dello stento; per cui mi limiterò alla citazione dei progetti e delle partecipazioni più `eclatanti` lasciando l`ulteriore ed eventuale approfondimento nelle mani dei lettori più volenterosi. A volte è sufficiente tirare il sasso e smuovere le acque, poi il resto viene di conseguenza.
Chris_McGregor Anche seguendo il filo delle singole discografie è comunque evidente che le vicende dei cinque musicisti sono intrecciate fra se come i vinchi di un paniere, ed è così che ad ogni progetto più o meno personale prendono quasi sempre parte uno, o più d`uno, degli altri quattro. E` come se ci fosse un autentico patto di sangue, siglato da qualche `witchdoctor`, in grado di tenerli uniti ben al di là della vita e delle vicende terrene.
Il progetto parallelo ai Blue Notes più importante è certamente quello orchestrale della Brotherhood Of Breath, se non altro perchè approntato dal leader Chris McGregor e comunque destinato a coinvolgere tutti i componenti del gruppo ad esclusione di Dyani (almeno nel primo periodo), il ruolo del contrabbassista sarà infatti occupato da Harry Miller (un altro musicista sudafricano del quale ci occuperemo fra qualche riga). Ma la BOB ospiterà fra le sue fila anche alcuni dei maggiori strumentisti dell`epoca (Malcolm Griffiths, Nick Evans, Mark Charig, Harry Beckett, Alan Skidmore, Mike Osborne, John Surman, Evan Parker, Gary Windo, Radu Malfatti...) e ricoprirà un ruolo di primaria importanza nella scena jazz inglese, superando in popolarità altre importanti orchestre inglesi, quali quelle di Keith Tippett e di Mike Westbrook, con le quali condividerà peraltro buona parte degli strumentisti. Il periodo d`oro dell`orchestra si situa all`inizio degli anni `70, quando vennero pubblicati su RCA ben due dischi registrati in studio (il primo prodotto da Joe Boyd) e su Ogun un terzo disco registrato al festival jazz di Willisau. Il trasferimento di McGregor in Francia, nel 1974, e la scomparsa di una pedina importante qual era Mongezi Feza, nel 1975, unite ad un numero di ingaggi troppo basso per mantenere i costi dovuti ad un`orchestra, ne minarono in seguito la stabilità . Louis_Moholo Alcuni dischi continuarono comunque ad uscire con una certa continuità : “Procession” del 1978 (su Ogun), in documentazione di alcuni concerti francesi, “Yes Please” del 1981 (su In And Out), con l`eponima composizione di Radu Malfatti, e “Country Cooking” del 1988 (su Virgin Venture) nel quale McGregor tornò ad incidere sotto la direzione di Joe Boyd. Recentemente la Cuneiform ha dedicato all`orchestra ben due pubblicazioni, il CD singolo “Travelling Somewhere” ed il CD doppio “Bremen To Bridgwater”, contenenti registrazioni dal vivo che risalgono al suo periodo d`oro. McGregor, dal canto suo, ha anche svolto una valida attività concertistica come pianista e in tale veste lo troviamo in alcuni dischi, fra i quali si segnala il delizioso “In His Good Time” del 1978 (Ogun). Nel settore delle partecipazioni è invece assolutamente imprescindibile quella a Poor Boy di Nick Drake (su “Bryter Later”).
Al 1971 risalgono i due LP degli Assagai, un gruppo afro-rock nelle cui fila militavano Mongezi Feza, Dudu Pukwana e Louis Moholo, usciti su Vertigo e intitolati “Assagai” e “Zimbabwe” (ma il secondo venne ristampato in seguito come “AfroRock”). Gli Assagai, durante la loro fugace esistenza, tentarono di contendere il primato del settore agli Osibisa, ma senza un riscontro corrispondente alla loro pregevole proposta sonora. Nel 1972 Feza e Dyani si spostarono in Svezia dove costituirono un trio con il batterista turco Okay Temiz. Dai numerosi concerti dati dal combo furono tratti ben tre dischi: “Music For Xaba” (Sonet), “Music For Xaba, Volume Two” (Sonet) e “Rejoice” (Cadillac); il primo è stato edito in seguito anche su Antilles ma, come gli altri, fa comunque parte di quei materiali che non sono mai stati ristampati e sono ormai fuori catalogo da tempo immemore. Johnny_Dyani Recentemente la Ayler Records ha messo in circolazione un doppio CD, intitolato “Free Jam” ed accreditato a Mongezi Feza & Bernt Rosengren Quartet, che contiene altre registrazioni risalenti a quel periodo e che vedono coinvolto il trombettista. Feza, tornato in Inghilterra, partecipò alla realizzazione dei primi dischi di Pukwana e fece poi comunella con i tipi di Canterbury, lasciando buone tracce in Little Red Riding Hood Hit The Road di Robert Wyatt (su “Rock Bottom”) e War degli Henry Cow (su “In Praise Of Learning”). Ancora lo ritroviamo su “Desperate Straights” degli Slapp Happy / Henry Cow. Wyatt registrò poi la sua Sonia - sul lato B del singolo Yesterday Man e poi su “Ruth Is Stranger Than Richard” - e Feza partecipò all`unico concerto dato dall`ex Soft Machine dopo l`incidente che lo aveva costretto in carrozzina (riportato in “Theatre Royal Drury Lane 8th September 1974”); in pratica fra i due era iniziata una proficua stagione di collaborazioni che andò in fumo per l`improvvisa morte del sudafricano. Fra le altre partecipazioni del trombettista va senz`altro ricordata quella a “Septober Energy” dei Centipede (nel quale sono coinvolti anche gli altri suoi pard Dudu Pukwana ed Harry Miller).
Johnny `Mbizo` Dyani, dal canto suo, nel 1973 inizia una partnership con il pianista Dollar Brand (aka Abdullah Ibrahim), anch`egli sudafricano, destinata a durare negli anni ed a produrre anche alcuni dischi. Alla fine del decennio Dyani tornerà a battere l`area scandinava, soprattutto la Danimarca, dove si accaserà presso la SteepleChase pubblicando un buon numero di dischi dai forti richiami `afro` (“Afrika”, “Angolian Cry”, “Song For Biko”, “Born Under The Heat”, “Witchdoctor`s Son”...) e avvalendosi di collaboratori extra-large come John Tchicai e Don Cherry, o come il fido compagno d`armi Dudu Pukwana. Dudu_Pukwana Altri musicisti con i quali ha collaborato sono Steve Lacy, McCoy Tyner, Kees Hazevoet, Peter Brötzmann, Company, Alan Shorter, Irene Schweizer, Han Bennink, David Murray, Leo Smith, Joseph Jarman, Don Moye, Butch Morris, Charles Davis, Mal Waldron, John Stevens, Harry Beckett.... Peter Brötzmann gli ha dedicato il pezzo Fuck de Boere. Dyani fu il secondo Blue Notes, il terzo considerando Moyake, a lasciare questo mondo pazzo e ingrato.
Il sassofonista Dudu Pukwana, oltre a porsi al servizio dei suoi pard, realizzò con una certa costanza una serie di dischi a proprio nome (con i gruppi Spear e Zila) fra i quali si distinguono gli eccellenti “In The Townships” (1973) e “Diamond Express” (1975). Fra le collaborazioni, oltre a quelle con gli altri sudafricani che abbiamo già citato, c`è da puntare il dito su un trio con Han Bennink e Misha Mengelberg (un disco, “Yi Yole”, su ICP nel 1978) oltre alle escursioni in ambiti non propriamente limitrofi (piano e sax alto su Call Me Diamone di Mike Heron, nel disco “Smiling Men With Bad Reputations”, e sax su “The Road To Ruin” di John Martyn).
Infine giungiamo al batterista Louis Moholo, al momento l`unico sopravvissuto di quel manipolo, che ha dato sostegno ritmico ai progetti di Pukwana e McGregor, oltrechè ad Harry Miller in “Isipingo” e “In Conference”, a Julie Tippets in “Sunset Glow” e che ha anche dato vita a vari progetti sia a suo nome sia in compartecipazione con alcuni fra i migliori strumentisti che hanno bazzicato la musica improvvisata. Qualche nomicino con cui ha suonato: George Lewis, Peter Brötzmann, Kees Hazevoet, Derek Bailey, Evan Parker, Cecil Taylor, Steve Lacy, Irène Schweizer, Elton Dean, Keith Tippett, Mike Osborne, Jason Yarde... e penso che possa bastare.
Harry_Miller Ma reputo giusto dover coinvolgere in questo articolo anche il contrabbassista Harry Miller (1941-1983), emigrato dal Sudafrica insieme a Manfrd Mann fin dal 1961, che è legato alla vicenda dei singoli Blue Notes allo stesso modo in cui quelli sono legati fra sé. Miller si inserì splendidamente nell`ambiente del jazz inglese e fu colonna portante in opere basilari come “Love Songs” e “Metropolis” della Mike Westbrook Orchestra, “Septober Energy” dei Centipede, “Chris McGregor`s Brotherhood of Breath”, “Brotherhood” e “Live At Willisau” della Brotherhood of Breath, “Sunset Glow” di Julie Driscoll/Tippets e “Ovary Lodge” del gruppo omonimo guidato da Keith Tippett e Frank Perry (nel disco su Ogun), ma lo ritroviamo anche in ambiti limitrofi come nel caso di “Islands” dei King Crimson. Sicuramente fu di grande aiuto ai cinque Blue Notes, favorendo il loro inserimento nell`ambiente musicale londinese, e partecipò attivamente ad alcune loro registrazioni, ma il suo contributo maggiore venne dato attraverso la Ogun Recording Limited, gestita assieme alla moglie Hazel, attraverso la quale diede visibilità e spazio ad alcune opere magistrali degli esuli sudafricani e di numerosi musicisti inglesi. E proprio su Ogun pubblicò alcuni splendidi dischi dei quali ci occupiamo dabbasso. Prima della morte, avvenuta per i postumi traumatici di un incidente automobilistico, si era trasferito in Olanda dove collaborava attivamente con i musicisti di quella scena. La solita Cuneiform ha da poco pubblicato un CD con la registrazione di un concerto dato a Brema nel 1975 dai suoi Isipingo (con Feza in formazione).
Di seguito trovate alcune brevi recensioni che prendono in esame per intero la discografia dei Blue Notes e in modo parziale quella riguardante le collaborazioni ed i progetti dei singoli elementi. Un lavoro realmente completo - scusate se mi ripeto ma anche la musica molto spesso lo fa - richiederebbe una ricerca troppo gravosa e viene quindi lasciato nelle mani di quel singolo lettore che è veramente interessato a sviscerare la vicenda fin nei suoi minimi particolari.
Da parte nostra, come ulteriore contributo, alleghiamo un'intervista (5) con il contrabbassista Roberto Bellatalla che ha vissuto in prima persona quella vicenda, ha conosciuto quei musicisti, ha suonato con alcuni di loro ed ha partecipato, con i Viva La Black di Louis Moholo, al 'freedom tour'...

(1) In realtà quella si chiama 'Blue Note' al singolare.

(2) Chiaramente c`era stato per tali musicisti anche un periodo pre-Blue Notes, e McGregor in particolare aveva già all`attivo la formazione di due orchestre (1952 e 1962) e addirittura la realizzazione di un disco come McGregor & The Castle Lager Big Band: “The African Sound” (Gallo, 1963)

(3) A proposito dell`apartheid consiglio a tutti di guardare il bellissimo film “Un mondo a parte” (“A World Apart”) di Chris Menges

(4) Per quanto riguarda Joe Boyd vi rimando al nostro articolo sul 'folk progressive'

(5) Nei fatti dall'intervista a Bellatalla è venuto fuori un secondo articolo in confronto al quale il mio è una banale quisquiglia.



Blue Notes...

“Township Bop” (Proper Records, 2002)

“Township Bop” raccoglie le prime timide incisioni dei Blue Notes, che risalgono agli inizi del 1964. E` possibile seguire l`assestamento del sestetto, intorno ad un nucleo inossidabile composto da Chris McGregor, Dudu Pukwana e Nikele Moyake, attraverso alcuni abbandoni seguiti dagli innesti scaglionati di Mongezi Feza, Johnny Dyani e Louis Moholo. I brani originali sono tutti di McGregor e Pukwana, ma ci sono anche tre riletture dal repertorio di Bill Evans (Never Let Me Go) e Duke Ellington (Take The Coltrane e Angelica). Quest`ultimo era per McGregor, e rimarrà sempre, una vera fonte di luce. E` evidente l`ancoramento alla tradizione boppistica (da Monk in giù) e qui sta forse l`unico difetto, nel guardare troppo prosaicamente alla tradizione del jazz americano proprio mentre quest`ultimo, nelle sue forme più avanzate, si stava riappropriando delle sue origini africane più pure. Va comunque compresa la situazione di estrema difficoltà in cui il gruppo si trovava ad agire, situazione che sarebbe senz`altro peggiorata se si fossero cimentati in una proposta dal carattere ancor più nero. D`altro canto gli strumentisti lasciano intravedere buone impennate di vivace personalità (penso soprattutto a The Blessing Light di Pukwana) che fanno pensare a qualcosa di più della mera operazione calligrafica. Quello che mancava era il tempo e lo spazio per maturare.

“Legacy: Live in South Afrika 1964” (Ogun, 1998)
Ancora vecchie registrazioni recuperate in tempi recenti per la cui produzione, a riconoscimento del ruolo fondamentale svolto dal manipolo sudafricano presso la comunità degli improvvisatori britannici, si è mosso addirittura Steve Beresford. In questo caso le registrazioni sono avvenute in concerto e precedono di poco la partenza del gruppo dal Sudafrica. I sei dimostrano di possedere già una vena più sanguigna di quella delle precedenti registrazioni di studio e la loro maturità , e perizia di strumentisti ed improvvisatori, ha modo di emergere in più d`un occasione. In parte i brani si sovrappongono con quelli di “Township Bop”, ma queste versioni sono molto più dilatate (8-12 minuti contro i 3-5 minuti di quelle registrate in studio) e gli strumentisti si avventurano in più libere divagazioni. I titoli non presenti nel disco precedente sono comunque 4 su 7, e ben 3 di essi portano la firma di Pukwana, che si conferma così come l`autore più prolifico del team. Il quarto inedito è un ottimo rifacimento di uno standard del calibro di I Cover The Waterfront. Fra i brani di Pukwana ci sono la splendida ballata monkiana B My Dear, che è destinato a diventare uno dei suoi brani classici e una trentina d`anni più tardi verrà riproposto dalla Dedication Orchestra in “Spirits Rejoice”, e l`irruente Dorkay House. Dalle registrazioni è possibile intuire anche la calorosa accoglienza riservata dal pubblico alla musica del gruppo: probabilmente siamo all`interno di un locale riservato ai neri e va dato atto a McGregor del coraggio con il quale trasgrediva così apertamente le prescrizioni delle autorità . Il gruppo è pronto per la grande avventura europea.

“Very Urgent” (Polydor, 1968)
The Blue Notes 4 anni dopo. Siamo agli studi Sound Techniques di Londra, alla consolle c`è Joe Boyd e in sala (così tramanda la leggenda) c`è nientepocodimeno che Ornette Coleman. Al posto di Nick Moyake fa la sua fugace apparizione Ronnie Beer. Il loro è qui un jazz più `free` nella sostanza della forma che nella veemenza degli interventi strumentali - prendete ad esempio l`incredibile intreccio di Heart`s Vibrations - e si muove sulla scia dei gruppi di Coleman, Eric Dolphy e Andrew Hill. I brani, in due casi legati assieme in `meddley`, sono di ottima fattura, specialmente i due lenti posti in apertura e chiusura: Marie My Dear di Pukwana, una ballata che riprende B My Dear ben oltre l`assonanza del titolo, e il tradizionale Don`t Stir The Beehive di cui non conosco le origini, una marcia funebre condita ad hoc con piccoli intoppi e preziose dissonanze. Cosa manca? Innanzi tutto la personalità strumentale caratteristica dei modelli citati, se pure va detto che i sei, in particolare Feza, si difendono più che bene. Ma il disco fallisce soprattutto nella mancata fusione delle due anime, quella jazzistica e quella più propriamente afro che, nell`occasione, viene lasciata fuori dalla porta. Strano che un volpone come Boyd non abbia intuito quel colpo vincente, che avrebbe portato i Blue Notes ad anticipare addirittura gli Art Ensemble Of Chicago. Ma il motivo per cui il disco passò praticamente inosservato è da ricercare nella sua sistemazione all`interno di un catalogo, quello Polydor, che era impegnato nella produzione di tutt`altre cose. “Very Urgent”, che venne pubblicato a nome del Chris McGregor Group e non a quello dei Blue Notes (non conosco i motivi di ciò), non è mai stato ristampato ufficialmente, ma è comunque circolato in copie CD-R semi-legali.

“Blue Notes For Mongezi” (Ogun, 1977)
Il 23 Dicembre del 1975 Chris McGregor, Louis Moholo, Dudu Pukwana e Johnny Dyani si ritrovarono per rendere omaggio, a nove giorni dalla scomparsa, all'amico Mongezi Feza. I quattro iniziarono a suonare spontaneamente e proseguirono senza interruzioni per 3 ore e ½, una maratona dalla quale furono poi tratti i miseri 80 minuti di questo doppio LP che, spiritualmente, riunisce i cinque Blue Notes emigrati nel 1964 dal Sudafrica e sbarcati, dopo un periodo di peregrinazioni, sulle rive del Tamigi. Il pianismo fluido e raffinato di McGregor, il citazionismo scoppiettante di Pukwana, la cavata possente di Dyani e l'incredibile senso del ritmo di Moholo danno vita ad un flusso musicale dai connotati universali e questi Blue Notes, seppur privi della gioiosa e lirica tromba di Feza, si propongono quale affascinante contraltare africano dell'Art Ensemble of Chicago. Dai loro strumenti, ma sarebbe meglio dire dai loro cuori, è uscita in questa occasione la più compiuta commistione fra jazz e musica africana che sia mai stato dato di ascoltare. Nella morte, nel disfacimento della carne, questi quattro uomini hanno saputo trovare gli stimoli per donare al mondo un`opera immortale. Non so se questa spiritualità può essere definita come la vera essenza della `religione`, ma credo di sì. “Blue Notes For Mongezi” non è mai stato ristampato.

“Blue Notes In Concert Vol 1” (Ogun, 1978)
“Blue Notes In Concert Vol 1” venne registrato a poco più di un anno di distanza dal lavoro precedente e, pur non possedendone la grande forza interiore, ne ripercorreva il mood dalla A alla Z. `Great Black Music` antologica che fluidificava senza soluzione di continuità attraverso alcune composizioni originali (la coltraniana Ilizwi di Pukwana, Amadoda di Moholo, Ithi-gqi di Dyani, Magweza e Manje di McGregor, ma l`ultima non è altro che la Now dei primi dischi); tre titoli ripresi dal folklore africano (Abelusi, Mhegebe e We Nduna) e riproposti con il beneplacito di arrangiamenti collettivi; ed un recupero doveroso dal repertorio del pianista sudafricano Tete Mbambisa (Nomsenge). Sì, si tratta di un ottimo disco tratto da un ottimo concerto - quello dato a Londra il 16 Aprile del 1977 al 100 Club di Oxford Street - ma “...In Concert Vol 1” rappresenta per i Blue Notes anche il disco dei purtroppo: purtroppo non seguirà un `volume 2`, purtroppo non è mai stato riedito e purtroppo si sente il vuoto lasciato da Mongezi Feza. Nel retro di copertina ci sono i ritratti delle rispettive signore: Maxine McGregor, Mpumie Moholo, NobomVu Pukwana e Janne. Un autentico atto d`amore.

“Blue Notes For Johnny” (Ogun, 1987)
Per commemorare la scomparsa di Johnny Dyani i tre superstiti si ritrovarono in un vero studio di registrazione e, forse intuendo che non vi sarebbe stata una nuova occasione, suonarono divinamente donando sangue, sudore, lacrime, anema e core. Così, a quasi vent`anni da “Very Urgent”, “Blue Notes For Johnny” era il nuovo disco registrato in studio e venne deciso di dedicare l`occasione soprattutto alla rilettura di brani del compagno scomparso: Funk Dem Dudu da “Afrika”, Eyomzi da “Witchdoctor`s Son” e Ithi Gqi da ”Spirits Rejoice!” di Louis Moholo (quest`ultimo era anche nel precedente “...Live In Concert...”) fecero così rivivere lo spirito dell`indomito contrabbassista. C`era ancora posto per Blues For Nick di Pukwana, probabilmente scritta per Moyake (in “Township Bop” la trovate con il titolo di Blue Nick), per Monks & Bizo di McGregor / Moholo e per il tradizionale Ntyilo Ntyilo (abbastanza noto viste le interpretazioni datane da Miriam Makeba e Hugh Masekela). Potente e viscerale, si tratta sicuramente di uno dei loro dischi migliori. “Blue Notes For Johnny” non è mai stato ristampato.


... e dintorni.

“The Forest And The Zoo” (ESP, 1967)

Nel 1966, quindi poco tempo dopo che i Blue Notes erano in Europa, Steve Lacy fu uno dei primi a comprendere le grandi potenzialità dei 5 musicisti, e di conseguenza ingaggiò la sezione ritmica del gruppo per formare un quartetto in grado di affrontare un tour sudamericano (il quarto elemento era il trombettista Enrico Rava). Durante una data del tour, all`Instituto di Tella in Buenos Aires, furono effettuate queste registrazioni che la ESP pubblicò un anno dopo. Così i due furono testimoni dei primi passi (neppure tanto timidi) fatti da Lacy per affrancarsi da quell`universo sonoro monkiano che lo aveva tenuto bloccato per anni. Neppure tanto timidi, perchè il disco è composto da due lunghe improvvisazioni, Forest e Zoo, che si srotolano una per lato in assoluta libertà , senza accenni tematici o motivi melodici a lenirne la complessità strutturale. Per Lacy è l`inizio di un nuovo ciclo artistico, e per Dyani e Moholo è il primo passo nel grande circuito dell`improvvisazione creativa. Mi sembra superfluo ribadire che si tratta di un disco fondamentale.

“Kwela by Gwigwi's Band” (77 Records, 1968)
Questo disco, ristampato recentemente su Honest Jons Records come “Mbaqanga Song” e a nome di Gwigwi Mrwebi, ricollegò Dudu Pukwana e Chris McGregor alle più autentiche tradizioni musicali sudafricane. Il `Mbaqanga` è infatti uno stile musicale popolare del Sudafrica che può essere paragonato a quello che era il Rhythm and Blues per i neri degli Stati Uniti o lo Ska per quelli giamaicani. Può sembrare strano che i nostri `eroi` siano dovuti approdare in Europa per `scoprire` le proprie tradizioni, ma non si deve dimenticare di come il regime di Pretoria discriminasse e ghettizzasse le popolazioni autoctone e, di conseguenza, anche le loro espressioni culturali. I Blue Notes, una volta in esilio, incontrarono altri connazionali e poterono agire in un clima relativamente più libero e tollerante nei loro confronti. Furono quindi possibili piccoli casi, come questo, nei quali quegli uomini si ritrovavano in assembramenti provvisori per dare libero sfogo a tutto ciò che era stato loro negato fino ad allora. Oltre al leader (sax alto), a McGregor (pianoforte) ed a Pukwana (sax alto ed autore di 10 brani su 16, contro i 6 di Mrwebi), sono presenti Ronnie Beer (un sassofonista tenore che ritroveremo nelle prime formazioni dirette da McGregor), Coleridge Goode (un leggendario contrabbassista di origini giamaicane) e Laurie Allan (batterista che suonerà in seguito con i Gong e con Robert Wyatt). Forse il mood è troppo ligio alla tradizione e il disco, per chi come me non è avvezzo al genere, potrà sembrare monotono, ma l`influenza di questa esperienza si avvertirà positivamente nelle successive vicende dei partecipanti, anche in modo piuttosto percettibile, come quando Pukwana se ne ricorderà e ne terrà conto al momento di realizzare il vigoroso “In The Townships”. Le note di copertina della ristampa sono state redatte da Steve Beresford, a conferma che il pianista inglese è un autentico cultore della `famigliola sudafricana in esilio`.

“Friendship Next Of Kin” (Goody 1969)
Questo disco, uscito a nome del leggendario e misterioso batterista sudafricano Selwyn Lissack, venne originariamente pubblicato in Francia dalla Goody (un`etichetta sussidiaria della BYG), e merita di essere incluso in questa breve carrellata poichè rappresenta l`ingresso di Mongezi Feza nel giro del grande jazz europeo (ci sono comunque anche `incidentali` interventi alle percussioni del suo compagno di disavventure Luois Moholo). Ammesso che “Friendship Next Of Kin” possa essere considerato un disco di jazz europeo, chè oltre ai tre sudafricani già citati ci sono Kenneth Terroade (un sassofonista di origine giamaicana che faceva parte dei gruppi parigini di Sunny Murray e di Alan Silva), Earl Freeman (contrabbassista, pianista e poeta nero americano che bazzicava egualmente i gruppi dei free-jazzmen esuli a Parigi), Harry Miller (il contrabbassista sudafricano su cui ci soffermeremo a lungo nel corso di questo articolo) e Mike Osborne (sassofonista inglese e unico rappresentante del jazz europeo). I due lunghi brani presenti (Friendship Next Of Kin e Facets Of The Univers) confermano le premesse e le promesse allineandosi alle opere più visionarie della New Thing (Ascension di Coltrane, Black Art di Sunny Murray, Black Dada Nihilismus del New York Art Quartet, Luna Surface di Alan Silva...). Il disco, dopo essere stato per anni una chimera dei collezionisti ed aver raggiunto l`invidiabile quotazione di $ 300, è stato recentemente ristampato in CD (con aggiunta una versione alternativa di Friendship Next Of Kin) dalla Downtown Music Gallery di New York.

“Chris McGregor`s Brotherhood of Breath” (RCA Neon, 1971)
La Brotherhood of Breath rappresentava senz`altro il maggior interesse di McGregor, l`elemento verso il quale cercava di convogliare al massimo le sue energie. Questo disco d`esordio trovò una sistemazione più adeguata rispetto a “Very Urgent”, in un catalogo appropriato come quello RCA Neon che ospitò altre opere del jazz orchestrale meno oltranzista quali quelle di Keith Tippett e Mike Westbrook. La concezione del sudafricano aveva uno specifico punto di riferimento in Duke Ellington, e in Charles Mingus se volete, e interessante fu il tentativo di dare alla Brotherhood un look freak alla Sun Ra (d`altronde il riferimento al Duke era comune), non so quanto suggerito da Joe Boyd che sedeva di nuovo alla consolle. Il disco comprende gli allucinati 20 minuti di Night Poem, con il leader che si cimenta allo xilofono e frasi fiatistiche che si rincorrono a catena, la congerie free The Bride, firmata da Pukwana, la ballata Davashe`s Dream, scritta dal sudafricano Mackay Davashe, la fanfara conclusiva Union Special e la danzante Andromeda (in assoluto il miglior brano della selezione). La formazione, oltre ai fidi che avevano partecipato a “Very Urgent” (manca solo Johnny Dyani), comprende i migliori talenti del jazz inglese: Nick Evans e Malcolm Griffiths ai tromboni, Mark Charig e Harry Beckett alle trombe, Alan Skidmore, Mike Osborne e John Surman alle ance e, naturalmente, il grandissimo Harry Miller al contrabbasso. Il disco è stato ristampato anche in CD (prima su Repertoire ed ora su Fledg'ling Records).

“Assagai” (Vertigo, 1971)
Gli Assagai erano composti dal sassofonista / pianista Dudu Pukwana, dal trombettista Mongezi Feza, dal batterista Louis Moholo, dall`altro sassofonista Bizo Muggikana, dal chitarrista Fred Coker e dal bassista Charles Cuonogbo. I primi quattro provenivano tutti dal Sudafrica, e saranno poi la colonna portante del gruppo Spear di Dudu Pukwana, mentre gli altri due erano nigeriani. Il gruppo venne precipitosamente inserito nel calderone afro-rock, anche se escluse le origini dei musicisti di `afro` aveva poco, almeno nel senso di influenza diretta, e la tradizione sonora del continente nero era filtrata attraverso esperienze quali il soul, il funk, il rhythm and blues, il jazz, il calypso, il mambo.... La musica, vista la caratura degli strumentisti, era comunque ancor più varia e `contaminante` di quanto ogni descrizione possa far credere. Gli Assagai, in poche parole, avrebbero potuto rappresentare per la loro epoca quello che i Living Colour rappresenteranno poi per la fine degli anni `80. Ma, come nel caso di “Very Urgent”, remò contro la realtà di un marchio, come quello Vertigo, che non era certo conosciuto per le produzioni di musica nera. E il gruppo, dopo un solo secondo LP, andò così incontro al disfacimento prematuro. I brani erano quasi tutti originali - fatta eccezione per una deliziosa versione caraibica di Hey Jude e per Telephone Girl (già nel repertorio dei Jade Warrior) - e in buona parte portavano la firma del chitarrista Fred Coker. Il disco è stato ristampato in CD su Repertoire ma è nuovamente fuori catalogo.

“Brotherhood” (RCA, 1972)
Il secondo disco della Brotherhood of Breath sembrava voler riproporre il modello freak del precedente, ma la `comune` della copertina fa pensare più ai Soft Machine di “Third” e alla Incredible String Band che non a Sun Ra, nonostante la realtà del disco si approssimasse più alle esperienze orchestrali della New Thing più ortodossa. Sono soprattutto due brani a lasciare il segno: Joyful Noises e Do It. Il primo è rappresentato da una lunga scorribanda sulla tastiera del pianoforte, che fa pensare a Cecil Taylor, sostenuta con discrezione da contrabbasso e batteria e sopra la quale galleggiano i corali dei fiati, semplicemente magistrale. Con Do It avviene invece la discesa nel mondo della ripetitività , trattandosi in pratica di una serie di fraseggi corali reiterati dai quale escono fuori come schegge impazzite i lazzi dei singoli strumentisti, ma nella parte centrale c`è posto anche per la frantumazione in piccole scorie di dissonanza che pian piano vanno poi a ricomporsi fino al `glorioso` finale che, per l`intensità dell`insieme, non ha niente da invidiare ad “Ascension” di Coltrane od agli insiemi più potenti della Liberation Music Orchestra. La chiusura del disco era affidata ancora una volta ad una breve fanfara, Funky Boots March, questa volta ideata da Gary Windo e Nick Evans. Rispetto all`esordio vanno anche segnalati dei cambiamenti d`organico, entrava per l`appunto Gary Windo e abbandonavano John Surman e Ronnie Beer. “Brotherhood”, che fino ad ora non era mai stato ristampato ed era circolato in edizioni CD-R semi-legali, è finalmente disponibile di nuovo per merito della Fledg'ling Records.

“Music For Xaba” (Sonet, 1972)
“Music For Xaba”, del trio Dyani - Feza - Temiz, era uno dei primi dischi di un Blue Notes a contenere tracciati nitidamente, e sfacciatamente, quegli attributi afro che ritroveremo poi nella produzione successiva del gruppo. I brani orientati in tal senso sono essenzialmente due: Idyongwana e Traditional South African Songs. Idyongwana, di Victor Ndlazilwana, è una sarabanda collettiva fatta di percussioni, campane, conchiglie soffiate e richiami vocali. Traditional South African Songs, di Johnny Dyani, si inerpica invece nei meandri di melodie folcloristiche condotte dall`autore al pianoforte, suonato con tecnica molto istintiva, ed alla voce. Gli altri due brani sono dei free jazz sviluppati in termini più classici. Il disco può far pensare ad alcune opere pubblicate contemporaneamente dall`Art Ensemble Of Chicago e/o da Don Cherry; d`altronde proprio il trombettista americano, che pure si rifugerà in Svezia, aveva esercitato la massima influenza sullo stile giocoso, pulito e gioioso di Feza. Anche i suoi due pard sembravano comunque trovare stimoli nel jazz americano del post-bop, il contrabbassista nella cavata possente e dissonante di Charles Mingus, Jimmy Garrison e Malachi Favors e il batterista nel senso innato del ritmo e delle coloriture tipici di Milford Graves ed Ed Blackwell. E` inconcepibile pensare come, in un periodo in cui viene ristampata anche la merda, questo gioiello (insieme agli altri due dischi incisi dal trio) rimanga ancora uccel di bosco. E capita addirittura di vederne scritto come di un disco etnico o di world music!!!!!!

“Good News From Africa” (Enja, 1973)
La passione di Dyani per le musiche tradizionali del suo paese trovò un`ulteriore possibilità di manifestarsi nel Dollar Brand Duo. Dollar Brand, conosciuto anche come Abdullah Ibrahim, era un pianista sudafricano costretto all`esilio, anche lui dal regime dell`apartheid, le cui influenze andavano da Duke Ellington a Thelonious Monk, ma che avevano soprattutto radice nei canti rurali africani e nel gospel. Ne veniva fuori uno stile dalle forti caratteristiche ipnotiche in grado di ritagliarsi una propria identità pur ponendosi all`interno della tradizione pianistica afroamericana. Il suo disco d`esordio, del 1963, era uscito con il patrocinio dello stesso Ellington (“Duke Ellington Presents The Dollar Brand Trio”). In “Good News From Africa” i due suonano anche piccole campane e flauti, oltre a contrabbasso e piano, e fanno pure buon utilizzo delle voci, per una musica eternamente sospesa fra tradizioni e contemporaneità . L`attenzione, seppure il ruolo di Dyani sia tutt`altro che quello del semplice comprimario, è inevitabilmente attratta dalle doti del pianista che non vengono mai meno ad un loro insinuante fascino, neppure quando Monk viene citato un po` troppo impudicamente (all`inizio di Moniebah). L`unica eventuale riserva riguarda la Enja, un`etichetta dalle produzioni un po` asettiche e in odore di ECM.

“In The Townships” (Virgin, 1973)
Dudu Pukwana era l`elemento più sanguigno dei Blue Notes, e tale vigoria viene totalmente fuori in questo disco, influenzato più dalla tradizione del funk / rhythm and blues che non da quella del jazz, quasi a preannunciare la no wave dei vari James `Blood` Ulmer [ricordate: Jazz Is The Teacher (Funk Is The Preacher)]. Lo stile di Pukwana è stato spesso paragonato a quello di Ornette Coleman - in realtà l`unico punto di contatto sta nel fatto che entrambi suonano il sax alto - ma trovo che il suo sassofonismo si avvicina maggiormente a quello più `grezzo` di Albert Ayler e Archie Shepp, e in tal senso va letto “In The Townships” (le `townships` erano i ghetti razziali durante il regime dell`apartheid). Si tratta di una musica essenzialmente corale, quindi, suonata da un gruppo (Spear) che appare come un concentrato dei musicisti sudafricani esuli: Dudu Pukwana al sax alto, piano, percussioni e voce; Mongezi Feza alla tromba, percussioni e voce; Louis Moholo alla batteria, percussioni e voce; Harry Miller al contrabbasso e basso elettrico; e Biso Mngqikana (negli Assagai è riportato come Bizo Muggikana) al sax tenore, percussioni e voce. I brani, ad esclusione di Sonia che è di Feza (e credo che questa sia la prima versione ad apparire su disco), sono tutti di Pukwana e sono tutti di fattura più che eccelsa. Il disco, indipendentemente dal tipo di strumentazione utilizzata, ha un forte mood elettrico ed urbano, complice anche l`ottimo lavoro alla consolle di Steve Verroca (specializzato nella produzione di musiche tipicamente da `pub`).

“Live At Willisau” (Ogun, 1974)
Nel Gennaio del 1973, al momento della partecipazione al festival jazz di Willisau, gli equilibri interni della Brotherhood of Breath si erano radicalizzati per l`ingresso di Evan Parker (in sostituzione di Mike Osborne e Alan Skidmore) e Radu Malfatti (in sostituzione di Malcolm Griffiths). Nonostante ciò la direzione intrapresa dall`orchestra non era cambiata se non per qualche insignificante particolare. Se mai c`era una maggiore consapevolezza, una maggiore sfacciataggine e tali elementi, uniti al fascino e al calore della registrazione in presa diretta, fanno di “Live At Willisau” il disco più affascinante prodotto dalla `congregazione del respiro`. E inoltre, in Tungis` Song, Mongezi Feza spende uno degli a solo più memorabili della sua breve vita (ma c`è spazio per tutti, e i neofiti Parker e Malfatti piazzano i loro colpi vincenti nella meravigliosa Do It - già apparsa “Brotherhood” - e nella cavalcata Kongis` Theme). Appare logico come McGregor fosse un leader orchestrale eccezionalmente democratico, quindi aperto verso le proposte dei suoi strumentisti, ma fermo e determinato rispetto a quella che doveva essere l`impostazione da seguire. E` chiaro che per lui l`orchestra non era un esperimento al pari di altri, come ad esempio per Anthony Braxton, ma la sua forma espressiva principale, e solo la mancanza di fondi e/o la cecità degli organizzatori di festival impedì un`affermazione su più larga scala ed una maggiore continuità d`azione. Anche se avesse pubblicato solo questo disco la Brotherood of Breath si sarebbe comunque aggiudicata un posto nell`ascensore per la `gloria`. Ristampato in CD.

“Diamond Express” (Arista, 1977)
“Diamond Express” è un disco importante per vari motivi. Innanzi tutto queste registrazioni sono fra le ultime, se non le ultime, a cui prese parte Mongezi Feza. Poi è interessante vedere come Dudu Pukwana, che ne è l`autore, si sforzi di coniugare le atmosfere degli Assagai con quelle di “In The Townships” e lo faccia soprattutto attraverso l`inserimento di chitarre e tastiere elettriche. Ne viene fuori un disco più elettrico ma dalla forza meno selvaggia del già citato predecessore. Come è possibile? Non me lo chiedete, anche se penso che tutto ciò riguardi una produzione passata dalle mani di Steve Verroca a quelle di Michael Cuscuna (che era un raffinato produttore `jazz`). In quasi tutti i brani suona una band comprensiva di Pukwana, Feza, Elton Dean (saxello), Nick Evans (trombone), Keith Tippett (piano), Lucky Ranko (chitarra), Victor Ntoni (basso) e Louis Moholo (batteria). Tale formula viene meno solo in Tete And Barbs In My Mind dove il clan di Tippett viene escluso in favore del solo Frank Roberts alle tastiere, Ernest Mothole rimpiazza Ntoni al basso e James Mene raddoppia Moholo alla batteria, con il risultato di allontanare ancora di più il mood dalle sanguigne atmosfere di “In The Townships” per avvicinarlo, nella fattispecie, all`Albert Ayler dei corali free più lenti. L`ultimo brano del disco è intitolato Bird Lives ed è inutile specificare a quale `uccello` si faccia riferimento. “Diamond Express” venne pubblicato quando Mongezi Feza non era già più, ed è inevitabilmente dedicato proprio alla memoria dello sfortunato trombettista (ma, come ho scritto in apertura d`articolo, si può davvero parlare di sfortuna?). Il disco è stato ristampato in CD, anche con il titolo variato in “Ubagile” (da uno dei brani che, in realtà , nell`originale è Ubaqile) e con scaletta variata.

“Witchdoctor`s Son” (SteepleChase, 1978)
Johnny Dyani, fra i cinque Blue Notes, è stato certamente quello che raggiunse una maggiore popolarità . I motivi stanno in una musicalità straordinaria, certamente, ma anche nelle sue capacità di adattamento ed in una poliedricità scoppiettante che lo vedeva passare con nonchalance dal ruolo di multistrumentista a quello di cantante (con una voce che ricordava vagamente quella di John Martyn). Lui stesso amava definirsi come un `musicista folk` e non erano rare le occasioni in cui, in concerto, imbracciava il contrabbasso come una chitarra e si accompagnava in canti tradizionali. E sicuramente ha influito, in questa popolarità , la sensualità , l`umanità e la sensibilità che trasudavano in ogni occasione dalla sua musica. Questo primo disco a suo nome su SteepleChase racchiude tutte queste caratteristiche ed esaurisce il compito, ingrato per un disco, di presentarci Dyani tale e quale era nella realtà . Ecco allora fare capolino, in mezzo ad un blocco di brani essenzialmente strumentali, una delicata canzone tradizionale (Ntyilo Ntyilo) cantata con il solo accompagnamento del contrabbasso e della chitarra di Alfredo Do Nascimento. Magwaza, un altro tradizionale, inizia invece come canto corale, sorretto da un ritmo ipnotico e sottolineato da fischietti ed affini, a partire dal quale si muovono poi le intersezioni dei fiati. Gli altri brani muovono liberamente fra un`estetica bop e un`estetica free (scusate il pasticcio). Insieme a Dyani, quasi contitolari, ci sono i sassofonisti Dudu Pukwana e John Tchicai; sul primo è inutile soffermarsi ulteriormente mentre per Tchicai basti dire che è un afro-danese reduce dal movimento della `new thing` (vissuta in formazioni seminali quali il New York Art Quartet e il New York Contemporary Five e nella partecipazione a dischi altrettanto seminali quali “Ascension” di John Coltrane). Per quanto riguarda i due ottimi percussionisti, Luez Carlos De Sequaira e Mohamed Al-Jarry, non hanno invece lasciato grandi tracce dietro di se. La versione in CD contiene ben 4 inediti, anche se nella realtà si tratta semplicemente di versioni alternative dei brani già presenti.

“In His Good Time” (Ogun, 1978)
Chris McGregor, oltre alla conduzione della Brotherhood of Breath ed all`impegno collettivo nei Blue Notes, ebbe anche un`attività come solista che, seppure abbia prodotto una discografia ancor più parca, va tenuta di buon conto non foss`altro che per questo delizioso “In His Good Time”. Il disco, registrato in concerto a Parigi il 18 Novembre del 1977, mostra al meglio un pianismo impressionista, dai tratti crepuscolari e dalla predisposizione antologica. McGregor, tanto per fare esempi, potrebbe riuscire a camuffarsi nelle vesti di un Muhal Richard Abrams bianco. Se non fosse che l`essere vissuto in Sudafrica, e l`aver suonato quasi sempre con musicisti neri, lo ha influenzato donando al suo mood, sicuramente di formazione melodica, quel profondo senso ritmico che lo portò ad affermare: «il piano è il mio tamburo preferito». L`amore per Duke Ellington, Thelonious Monk, Charles Mingus e Cecil Taylor ha fatto il resto. La sua sensibilità , la sua delicatezza e la sua raffinatezza - tutte virtù che lo portarono sempre a scegliere la strada più povera di soddisfazioni materiali ma più ricca di soddisfazioni interiori - non sono altro che le ciliegine su una torta già ben tornita. Nel retro di copertina appare un bimbo (o una bimba?) con i piedi sulla tastiera di un pianoforte, mentre si accovaccia per suonare un tasto con un ditino ben teso, una foto che riesce a rappresentare senza ulteriori parole la freschezza giocosa, ma anche la forza irrispettosa delle convenzioni (i piedi sulla tastiera...), che emana da queste 8 `songs` (per la precisione sei sono del pianista, una è di Pukwana e una è l`arrangiamento di una folksong tradizionale africana). “In His Good Time” non è mai stato ristampato e McGregor rischia di fare la fine di Sun Ra: osannato per la sua orchestra e dimenticato per le sue pur ottime doti di pianista. Fate che questo non avvenga mai.

“Spirits Rejoice!” (Ogun, 1978)
In questo bellissimo disco del Louis Moholo Octet rivive davvero lo spirito di Albert Ayler, sia nell`idea di esplorare essenzialmente marce e fanfare, sia in quella di una formula strumentale forte di due contrabbassi (Johnny Dyani e Harry Miller) e sia in un titolo che più ayleriano non si può. I brani, 5 in tutto, sono tutti di autori sudafricani, fra i quali si distinguono il leader stesso dell`Octet, Johnny Dyani e Mongezi Feza. La formazione, che definire strepitosa è un eufemismo, è completata da Keith Tippett al piano e da una sezione fiati speculare con due tromboni (Nick Evans e Radu Malfatti), una tromba (Kenny Wheeler) ed un sax tenore (Evan Parker). Il disco è stato ristampato nel 2005 in un doppio CD contenente anche le registrazioni di un Louis Moholo Septet, in pratica una delle varie reincarnazioni del progetto Viva-La-Black, risalenti al 1995 e rimaste fin`allora inedite. La formazione, che ricalca in forma ridotta quella che aveva affrontato il `freedom tour` in Sudafrica (per festeggiare il crollo del regime dell`apartheid), è ancor più indirizzata verso la valorizzazione di musicisti neri (Jason Yarde ai sassofoni, Claude Deppa alla tromba e Pule Pheto al piano), ma c`è spazio anche per il contrabbassista italiano Roberto Bellatalla e per il sassofonista inglese Toby Delius, ed ha un suo motivo supplementare d`interesse nella presenza della cantante Francine Luce, originaria de La Martinica e dalle inflessioni timbriche che ricordano quelle della splendida Abbey Lincoln. Solitamente ho scelto di segnalare semplicemente gli inediti presenti nelle ristampe senza addentrarmi in commenti, riservando questi per il disco come venne concepito al momento della sua realizzazione, ma “Bra Louis - Bra Tebs” (questo il titolo) non rappresenta tanto uno o più `brani omaggio` quanto un intero disco inedito indipendente da quello a cui è stato unito, trovo quindi giusto riservargli un leggero approfondimento. Fra i brani ci sono numerosi tradizionali, arrangiati da Moholo, appartenenti sia alla tradizione sudafricana sia a quella afroamericana più in generale. Fra i primi spiccano due versioni strumentali di Ntyilo-Ntyilo (la stessa che Johnny Dyani aveva interpretato su “Witchdoctor`s Son”), una delle quali è unita in `medley` con Lakutshona Ilanga di Mackay Davashe (che Dyani aveva egualmente ripreso in “Echoes From Africa” con Dollar Brand). Fra i secondi una versione cantata di Motherless Child, un tradizionale che ci troviamo sempre fra i piedi e che è piuttosto noto anche presso il pubblico che non segue la musica afroamericana (a causa della strepitosa versione che ne diede il folksinger nero Richie Havens al festival di Woodstock). Ancora da segnalare la B My Dear di Pukwana e Maybe Of Cause di Bellatalla, entrambe con la voce di Francine Luce che, nel secondo dei due brani, finisce con il ricordare lo stile dada-rap del primo Robert Wyatt. E ancora, fra i numeri più speciali, c`è la nervosa scrittura che Malfatti aveva approntato per la Brotherhood of Breath (Yes Please). “Bra Louis - Bra Tebs” è un disco dotato di un suo elegante classicismo e di una sua notevole forza, seppur meno sfrenata rispetto a “Spirits Rejoice!”, che comunque meriterebbe di essere conosciuto al di là dell`occasione offerta da questa ristampa in doppio CD.

“Song For Biko” (SteepleChase, 1978)
La danese SteepleChase, avvolta dentro un mood tradizionale appena incrinato da qualche tendenza modernista, sembra offrire la soluzione giusta per la musica mai troppo avventurosa (da un punto di vista strutturale) di Johnny Dyani, e infatti la discografia del contrabbassista è concentrata soprattutto in questo catalogo. Questo è il suo secondo disco per l`etichetta, questa volta a nome del Johnny Dyani Quartet, e la presenza di un gruppo 'reale' crea un`illusione di stabilità , se pure renda il tutto meno vario e variabile. Il gruppo, poi, è nell`occasione veramente da favola, con l`accoppiata Dyani / Pukwana ben integrata dal trombettista Don Cherry (inutile dire altro) e dal batterista Makaya Ntshoko (un musicista che viene altrettanto da lontano, faceva infatti parte del Dollar Drand Trio di cui ho scritto sopra). Sarà per questa formazione che (ap)pare quasi extraterrestre, sarà per le suggestioni dettate dal titolo, sarà per una sostanza niente affatto inferiore a quella del disco precedente, soltanto più orientata verso il jazz e meno verso le tradizioni africane, fatto sta che questo è il disco di Dyani che ad anni di distanza viene più apprezzato e ricordato. Eppure, nonostante la `superiorità ` e la bravura di un maestro come Don Cherry, questo è anche il disco nel quale più si sente l`assenza di Mongezi Feza, ...`wish you were here`. La ristampa in CD contiene un inedito (vero) della durata di oltre 20 minuti.

“Echoes From Africa” (Enja, 1979)
Questo secondo capitolo della collaborazione a due fra Brand e Dyani, ma nel frattempo il secondo aveva partecipato anche a progetti più corali organizzati dal primo, ripropone la vena tenera e familiare del primo disco. Solo 4 brani, mentre nel lavoro precedente erano 9, che però brillano per una screziatura di delicata e malinconica poesia più unica che rara. Namhanje è un tradizionale dal forte aroma bucolico, ben arrangiato dai due, che si protrae per oltre il 50% del minutaggio totale (cioè per oltre 16 minuti) e affascina soprattutto nell`utilizzo delle voci, a mezz'aria fra dialogo ed esposizione corale. Lakutshonilanga e Saud sono due quadretti romantico-impressionisti per pianoforte e contrabbasso: il primo porta la firma di Mackay Davashe (uno degli autori più ripresi dai musicisti trattati in questo articolo) mentre il secondo è di Brand ed è dedicato a McCoy Tyner. Zikr, sempre di Brand, è invece un brano molto mistico, quasi uno spiritual, ed infatti significa `Remembrance of Allah`. Altro disco da avere, se pure continuino a non entusiasmarmi le scelte produttive della Enja che si adatterebbero più al tardo Keith Jarrett o ad opere di new age.

“Opened, But Hardly Touched” (FMP, 1981)
Fra le collisioni che videro come protagonisti i singoli Blue Notes e gli improvvisatori euro-continentali - ricordo anche “Yi Yole” del trio Han Bennink, Misha Mengelberg & Dudu Pukwana e “Unlawful Noise” di Haazz (aka Kees Hazevoet) & Company con Peter Brötzmann, Peter Bennink, Han Bennink, Johnny Dyani e Louis Moholo (il primo pubblicato su ICP e il secondo su KGB Records) - è bene tenere a cuore questo doppio LP registrato al Flöz di Berlino il 5/6 di Novembre del 1980 da un trio che comprendeva Louis Moholo, Harry Miller e Peter Brötzmann, disco tanto più prezioso in quanto è uno di quelli in cui Brötzmann suona anche con la testa e non solo con i polmoni. Harry Miller era diventato per Moholo un partner più affiatato dello stesso Dyani e sono numerose le registrazioni che in quegli anni li videro affiancati, a partire dai gruppi diretti da loro stessi per finire con la Brotherhood Of Breath, passando per i gruppi di Mike Osborne, Elton Dean e Keith Tippett. Tale affiatamento aiuta non poco l`impresa di equilibrare il trio e tenere a bada i bollenti spiriti del tedesco, che dal canto suo appare un po` più timido ma anche più colorito di quello che conosciamo attraverso altri dischi, se non altro perchè svaria molto passando dal clarinetto, al tarogato, ai sax alto, tenore e baritono... quasi un'ora e mezzo di musica in forma totalmente libera che si fa ascoltare tutta d`un fiato.

“The Collection” (Ogun 1999)
S`è già detto dell`importanza avuta da Harry Miller, sia come musicista sia come `agitatore`, e del ruolo da lui rivestito presso la comunità musicale sudafricana e, in specifico, presso i Blue Notes; la sua è un influenza talmente grande e positiva da poterlo considerare in tutto e per tutto come un sesto componente del gruppo. Questo bellissimo cofanetto, completato da un libretto di 24 pagine, raccoglie in 3 CD i 5 dischi ufficiali del contrabbassista, ed è così ben fatto che è sogno ed auspicio la realizzazione di raccolte simili a sistemazione delle pagine più importanti di Brotherhood Of Breath, Blue Notes e formazioni satelliti. I primi quattro dischi di questa raccolta erano originariamente usciti su Ogun mentre il quinto era su Vara Jazz. Ma veniamo ai dettagli.
“Children At Play” (1974) è un bellissimo disco in solo, registrato in multitraccia utilizzando contrabbasso, piccole percussioni, campanellini e flauti dolci. I brani sono complessivamente 4, ma sono legati a mo` di suite e quello che da il titolo al disco è sfrangiato in più porzioni a fare da collante. Il mood può far pensare ai dischi del Sea Ensemble o del duo Don Cherry / Ed Blackwell, ma in verità è piuttosto personale fin dal mitico attacco che, incredibile ma vero, parrebbe essere un improbabile mixer fra lo Charlie Haden della prima “Liberation Music Orchestra” ed il Jimi Hendrix di “Are You Experienced?”.
“Family Affair” (del 1977) appartiene invece agli Harry Miller`s Isipingo, una formazione che comprendeva Marc Charig alla tromba, Mike Osborne al sax alto, Malcolm Griffiths al trombone, Keith Tippett al piano e Louis Moholo alla batteria. Nonostante la presenza di così grandi individualità , che singolarmente ne sanciscono il valore, la musica sembra complessivamente essere troppo impersonale. Comunque un buon disco nella cui economia si fanno particolarmente apprezzare le tessiture di Tippett e Moholo.
“Bracknell Breakdown” (del 1977) è in duo con Radu Malfatti e rappresenta l`estremo più sperimentale toccato dal contrabbassasita. Nei due lunghi brani, che originariamente occupavano un lato del vinile cadauno, i due sembrano essere memori della lezione racchiusa nei duetti fra Eric Dolphy e Charles Mingus, instaurando un dialogo che sovente non sembra provenire da due strumenti musicali ma da due voci umane.
Con “In Conference” (1978) Miller fissa un altro punto nodale della sue breve carriera musicale. Il gruppo è stratosferico, e se volete è anche molto particolare, con il consolidato trio Miller, Moholo, Tippett che gioca in contrapposizione ai `fiati` di Willem Breuker (sax soprano e tenore, clarinetto basso), Trevor Watts (sax alto e soprano) e Julie Tippetts (voce). Sarà per la presenza `forte` dei due sassofonisti, sarà per la voce della Tippetts, o forse sarà semplicemente frutto di una `maturazione` di Miller, ma è certo che questo disco migliora la precedente prova di gruppo con gli Isipingo. E soprattutto ne allarga le vedute, sia quando in Orange Grove `breukereggia` in direzione mitteleuropea sia quando la Tippetts ingrana la marcia infiammando la scena con due fra le sue migliori performance di sempre (Dancing Damon e New Baby).
Quando venne registrato “Down South” (1983) Harry Miller si era trasferito in Olanda ed aveva abbracciato ulteriormente le forme improvvisativo-compositive tipiche dei musicisti di quel paese (un enciclopedismo onnivoro che lo vedeva assolutamente a proprio agio). Pur non ripetendo l`exploid di “In Conference”, ma era praticamente impossibile ripeterlo, il valore complessivo del disco rimane sopra la media grazie ad un gruppo che, ancora una volta, è composto da autentici fuoriclasse quali il batterista Han Bennink, il trombonista Wolter Wierbos, il cornettista Marc Charig e il sassofonista Sean Bergin. Quest`ultimo, di origine sudafricana, lo ritroveremo in seguito in buona parte delle formazioni approntate sul finire del decennio da parte di Louis Moholo e chiamate Viva-La-Black.
Se Harry Miller non fosse morto, visti i musicisti che stava frequentando e vista la sua inossidabile curiosità , state pur certi che avremmo finito con il ritrovarlo in qualche disco degli Ex o in qualcuna delle loro derivazioni. Ma la sorte, purtroppo, aveva altri programmi.

“Remembrance” (FMP, 1988)
Nell`estate del 1988 Cecil Taylor lavorò per un mese intero, dal 17 Giugno al 17 Luglio, nella città di Berlino, dove era stato invitato tramite la FMP. Fra i numerosi progetti che videro protagonista il pianista afro-americano vi furono dei duetti con alcuni grandi batteristi (Günter Sommer, Paul Lovens, Han Bennink, Tony Oxley...) che, in quanto collaborazioni inedite, sulla carta potevano presentare dei rischi d`intesa. Ma l`incontro con Louis Moholo non comportava certamente tali rischi, dal momento che il sudafricano era sicuramente prossimo alla concezione pianistica di Taylor - percussiva, energica, dissonante, ipnotica e `nera` - e dal momento che il suo stile condensava l`eleganza di Sunny Murray, la complessità poliritmica di Milford Graves, l`energia di Andrew Cyrille, il senso del colore e del ritmo di Ed Blackwell e quello della libertà di Rashied Ali, tutti batteristi che avevano condiviso con Taylor l`esperienza della New Thing. A tutto questo Moholo poteva aggiungere anche l`ormai lunga esperienza europea e quella `afritudine`, reale e non fittizia, derivata dal suo retroterra e dalle sue esperienze formative. L`incontro avviene in un epicentro comune a entrambi, se pure raggiunto per vie diverse, che sta nel tentativo di traslare la tradizione musicale africana all`interno di un concettualità tipicamente contemporanea. Il percorso di Taylor è comunque accademico e frutto sia di ricerca sia di studi approfonditi, con quel tanto di artefatto che ne può derivare, mentre quello di Moholo è il frutto di un`evoluzione fatta di esperienze concrete e quindi infinitamente più `genuino`. E così “Remembrance” è un altro ottimo disco che non può sfuggire alla vostra opera di ricerca, ma è comunque consigliabile affiancarlo e confrontarlo con gli altri duetti piano-batteria registrati in quella lunga e densa tornata che fu la residenza berlinese di Cecil Taylor.

“Village Life” (Incus, 1991)
Quando ho iniziato a scrivere l`articolo non ero ancora a conoscenza di questo disco che le cronache relegano ben nascosto in una posizione di serie B. Si tratta dell`inevitabile collaborazione fra un Blue Notes (Louis Moholo) ed il chitarrista Derek Bailey, che però si avvale di un terzo incomodo nella figura del percussionista Thebe Lipere (uno dei punti fermi nei primi Viva-La-Black). Le percussioni e, a tratti, le voci dei due sudafricani creano nei primi brani un sottofondo spettrale, amplificato dai suoni cupi e tesi del chitarrista che fa frequente uso di risonanze, in grado di dare al tutto un insolito alone da racconto del mistero. In Beanery è possibile sentire l`influenza di ambienti `quartomondisti` mentre nei due ultimi brani, Leeto e Hamba Gahli, la narrazione si impenna in tessiture più tipicamente free. In definitiva si può parlare di una prova piuttosto inusuale, e per questo magari ancor più appetibile, in grado di esaltare la duttilità di tutti e tre i musicisti coinvolti. Le registrazioni, se ho ben capito, sono state effettuate `senza pretese` da un tavolo posto nei pressi dei musicisti e, a dispetto di ciò, mi sembrano perfettamente riuscite, se non anticipatrici di alcune tendenze a venire (tanto di cappello al Matt Saunders che le ha realizzate). “Village Life” è uno `strano` disco dall`anima profondamente blues e/o jazz che, a quindici anni dalla sua registrazione, continua a spruzzare spore di vivida attualità .

“Spirits Rejoice” (Ogun, 1992)
Quando morirono anche Chris McGregor e Dudu Pukuana, all`inizio del 1990, sulle spalle di Louis Moholo restò tutto il peso di una storia tanto avvincente quanto penosa, con un fardello di esperienze e memorie che non potevano / dovevano ridursi a suo patrimonio personale. Fu così che, con l`aiuto di Keith Tippett, nacque la Dedication Orchestra, il cui obiettivo era quello di rivisitare le vicende dei Blue Notes in 30 anni di storia. La collaborazione fra Tippett e Moholo era iniziata quasi subito dopo l`arrivo del batterista a Londra e aveva già avuto modo di trovare sfogo in numerosi dischi e progetti - fra i quali c`è anche un disco in duo registrato all`Academy of Arts di Berlino durante il Workshop Freie Musik del Marzo 1980 (“No Gossip” su FMP) - ma l`occasione era troppo importante e i due cercarono di andare oltre fino a coinvolgere la crema dei musicisti che avevano collaborato con i Blue Notes durante la loro permanenza londinese. Gli strumentisti presenti sono Guy Barker, Harry Beckett, Claude Deppa, Jim Dvorak, Kenny Wheeler, Django Bates, Dave Amis, Malcolm Griffiths, Radu Malfatti, Paul Rutherford, Dave Powell, Neil Metcalfe, Lol Coxhill, Ray Warleigh, Elton Dean, Evan Parker, Alan Skidmore e Chris Biscoe agli strumenti a fiato, Keith Tippett al piano, Paul Rogers al contrabbasso e Louis Moholo alla batteria, più le voci di Phil Minton, Maggie Nichols e Julie Tippetts. Alla direzione dell`orchestra si alternano Django Bates, Keith Tippett e Mike Westbrook, mentre la produzione è affidata a Steve Beresford. Il titolo del disco, infine, ricalca quasi calligraficamente quello che era stato l`esordio di Moholo su Ogun come band-leader (circa 14 anni prima). Che ve ne pare, eh? I brani ripresi, ognuno dei quali è arrangiato da un musicista diverso, sono: Traumatic Experience e Dancing Damon di Harry Miller (arrangiamento di Keith Tippett); Ithi Gqi di Johnny Dyani (arrangiamento di Radu Malfatti); B My Dear e Hug Pine di Dudu Pukwana (arrangiamenti di Kenny Wheeler e Django Bates); Andromeda e Manje di Chris McGregor (arrangiamenti di John Warren e Mike Westbrook); Sonia e You ain't gonna know me 'cause you think you know me di Mongezi Feza (arrangiamenti di Jim Dvorak e Eddie Parker, e con il secondo titolo che è preceduto da un`introduzione dei tre cantanti). La chiusura spetta allo stesso Moholo con Woza - originariamente era nel disco “Viva-La-Black” del 1988 - una ribollente bolgia free di fiati e voci al cui interno vengono citati i protagonisti del lungo esilio dal Sudafrica. Il disco, nonostante una certa enfasi (ma era inevitabile) e qualche barocchismo di troppo (laddove i sudafricani erano stati un esempio di grezza, nuda e cruda energia), è un`opera davvero commovente e di buon livello artistico. L`orchestra si ritroverà circa due anni dopo, con formazione lievemente modificata, per un secondo round che produrrà il doppio CD “Ixesha” (ben minore rispetto a questo esordio).

“Freedom Tour: Live in South Afrika 1993” (Ogun, 1994)
Louis Moholo è stato l`unico del gruppo a godersi la gioia per la fine del regime razzista sudafricano, e pur nell`amarezza di non poterla condividere con i suoi compagni di (dis)avventure tale gioia deve essere stata sicuramente enorme. Nel 1994 le prime elezioni libere tolsero il potere politico dalle mani della minoranza bianca e lo consegnarono al vittorioso partito di Nelson Mandela. Non ho mai pensato che quel passaggio di poteri avrebbe rappresentato la fine dei problemi per i sudafricani di colore, chè ci vorranno decine d`anni (probabilmente decine di secoli) per annullare gli effetti negativi prodotti da una situazione coloniale che ha dirottato le ricchezze di quel paese (e di altri paesi simili) verso i forzieri dei paesi colonizzatori, permettendoci quel relativo benessere di cui godiamo ancora gli strascichi, ed ha ridotto la popolazione autoctona in totale miseria. Comunque si è trattato di una piccola vittoria del cosiddetto pensiero `civile` sul cosiddetto pensiero `barbaro` (dovuta sicuramente anche al contemporaneo cambiamento della situazione internazionale), e credo che sia stata un buon motivo di soddisfazione anche per tutti quei musicisti che negli anni precedenti avevano intrapreso decine d`iniziative per sensibilizzare l`opinione pubblica del mondo occidentale sulla situazione sudafricana (e penso che in questo coinvolgimento dell`ambiente musicale nella lotta all`apartheid abbia giocato un ruolo di primo piano proprio la presenza in Europa dei numerosi musicisti esuli). Già l`anno precedente erano state abolite le più odiose / odiate leggi razziali, molti detenuti politici erano stati liberati e si viveva ormai in un clima di libertà , reso ancor più brioso dall`attesa delle libere elezioni che si sarebbero tenute da lì a breve. E` in questa situazione di grandi aspettative che Moholo, per festeggiare la sopraggiunta libertà , decise di intraprendere un tour nel suo paese con il gruppo Viva-La-Black che, al momento, aveva già all`attivo due dischi su Ogun: l`eponimo “Viva La Black” del 1988 ed “Exile” del 1991. Rispetto alle formazioni di quei due dischi precedenti, comunque leggermente diverse essendo la prima un sestetto e la seconda un settetto (*), quella che affrontò il `freedom tour` era un ottetto con Louis Moholo (batteria, voce), Thebe Lipere (percussioni), Claude Deppa (tromba, voce), Sean Bergin (sax tenore, flauto, concertina, voce), Toby Delius (sax tenore, voce), Jason Yarde (sax alto e soprano, voce), Roberto Bellatalla (contrabbasso) e Pule Pheto (piano). Un sunto di quel tour venne poi offerto nel disco “Freedom Tour (Live In South Afrika 1993)”, che va a chiudere un cerchio idealmente aperto da “Legacy: Live In South Afrika 1964”. Il disco è commovente fin dalla copertina, dove gli otto musicisti e la signora Hazel Miller commentano l`esperienza di quel tour e la densità di quelle registrazioni. Si tratta di un opera concettualmente quasi `punk`, vista la breve durata di quasi tutti i brani, ma che trattiene tuttavia l`idea della grande festa collettiva, di una gioia di vivere che rimane a dispetto delle troppe morti che l`hanno funestata. I brevi frammenti sono comunque cuciti assieme e scorrono senza soluzione di continuità , pur essendo stati registrati in luoghi diversi: Joseph Stone Theatre, Green Market Square e Langa Pool a Città del Capo, Technikon Goldfields Auditorium a Port Elizabeth, The Playhouse Theatre a Durban e The Market Theatre a Johannesburg (da un punto di vista strettamente artistico sarebbe forse stato meglio pubblicare per intero uno dei concerti evitando l'eccessiva frammentazione determinata in fase di post-produzione). Incredibile, all`inizio, è la versione di Woza, con un intro che crea l`idea della formula magica, o in ogni caso rituale, e le voci che, nello svolgimento del brano, citano alcuni grandi della musica afroamericana ma pure John & Yoko (Give Peace A Chance). I brani, ben 16, sono divisi fra scritture dei componenti il gruppo, tradizionali, classici del jazz afro-americano (Come Sunday di Ellington, Volunteered Slavery di Roland Kirk e What A Wonderful World di Armstrong) e riprese dal repertorio dei forzatamente assenti: Lost Opportunities di Harry Miller, Ewe Radebe di Johnny Dyani, Joyful Noise di Chris McGregor, Bird Lives di Dudu Pukwana, Mad High e You ain't gonna know me cos you think you know me di Mongezi Feza. Louis Moholo riporta lo spirito dei compagni scomparsi all`interno di questa festa che avrebbero sicuramente voluto vedere, li fa rivivere nella sua musica, che è la loro musica, e nella grande umanità che trasuda dalla sua persona e da quella dei musicisti che lo accompagnarono in questa storica avventura. The Blue Notes Lives.

(*) Per l`esattezza in “Viva La Black” c`erano Louis Moholo, Steve Williamson (sax soprano), Sean Bergin, Claude Deppa, Thebe Lipere e Roberto Bellatalla, mentre in “Exile” Paul Rogers sostituiva Bellatalla e c`era in aggiunta Frank Douglas alla chitarra elettrica.
Proprio in concomitanza con la realizzazione di questo articolo la Ogun ha pubblicato anche un nuovo CD dal titolo "Viva La Black live at Ruvo" e accreditato a Keith Tippett, Julie Tippets, Louis Moholo-Moholo & Canto Generà l (quest'ultimo è un'ensemble vocale e strumentale composto da Gianna Montecalvo, Cinzia Eramo, Gabriella Schiavone, Teresa Vallarella, Loredana Perrini e Maristella Schiavone: voci; Vittorino Curci: sassofono alto; Roberto Ottaviano: sassofoni soprano e alto; Fabrizio Scarafile e Felice Mezzina: sassofoni tenore; Nicola Mitoli: trombe e flicorni; Beppe Caruso, Lauro Rossi, Franco Angiolo e Michele Marzella: tromboni; Giogio Vendola e Francesco Angiuli: contrabbassi e bassi elettrici; Livio Minafra: piano e tastiere; Vincenzo Mazzone: batteria. Il CD è stato registrato in pubblico a Ruvo Di Puglia il 5 Settembre del 2004.




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