iosonouncane (intervista)    
di e. g. (no ©)





Amore a prima vista. Esiste? Non esiste? Sicuramente esiste dal momento che io l`ho provato ascoltando per la prima volta le canzoni di Iosonouncane. E` stato in un concerto davanti ad un pubblico di poche persone, probabilmente al momento attuale la dimensione che più gli s`addice, perchè gli permette un dialogo incessante con il pubblico, e proprio in questo suo continuo alternare canzoni, racconti, provocazioni e gag sta una delle sue caratteristiche. E le stesse canzoni vengono spesso screziate con richiami, divagazioni e ribaltamenti vari che ne fanno qualcosa di molto teatrale, se non qualcosa di simile allo straparlare degli imbonitori girovaghi. E, se anche fosse tutto qui, sarebbe non poca cosa. Ma c`è dell`altro. Innanzi tutto il recupero dell`universo cantautorale italiano, attraverso citazioni e rifacimenti, che comunque viene musicalmente aggiornato a quella che è la contemporaneità dei campionatori, dei loop, dell`elettronica, dei suoni brut e del concreto. E poi ci sono idee pragmatiche tese a superare l'impasse creatosi a livello distributivo con la crisi del disco e con soluzioni che spesso appaiono solo palliativi o, ancor peggio, come un tentativo di adeguare i vecchi logori sistemi alle nuove esigenze creatisi con l'informatizzazione che viaggia a velocità della luce. Insomma, Iosonouncane rappresenta una boccata d'aria fresca al di là dei risultati che riuscirà a raggiungere, non fosse altro perchè mette in qualche modo in discussione lo stato di cose presente. E, oggi più che mai, il mondo ha bisogno di protagonisti che siano in grado di proporre soluzioni realmente nuove e innovative.


C'è qualche significato nel nome che ti sei scelto, oppure si tratta semplicemente di un alias in grado di distinguerti in una scena musicale (soprattutto quella legata alla rete) che vede gli pseudonimi proliferare come funghi nel bosco?
Guarda, avendo sempre e solo suonato in un gruppo fino ad un anno e mezzo fa circa, l'idea di presentarmi improvvisamente col mio nome e cognome non mi andava, per contenuti e per estetica. In una canzone scritta credo ormai 5 anni fa, mi apostrofavo come "il figlio del cane". Da lì, giochicchiando un po' (e, curiosamente, giochicchiando allo stesso tempo col mio cognome all'anagrafe) sono giunto a "IOSONOUNCANE". Quando si è trattato di creare uno spazio online da riempire in un qualche modo (solo successivamente di canzoni) IOSONOUNCANE mi è sembrato perfetto, calzante con quella che era l'idea che pian piano maturava del progetto (ripeto, ho sempre e solo suonato in un gruppo quindi, inizialmente, nel ritrovarmi a dover fare da solo non sapevo per niente bene dove andare a sbattere). Dopo pochissimo ho fatto il collage che poi è una sorta di autoritratto di IOSONOUNCANE ed è diventata la carta d'identità del Cane. E sempre dopo pochissimo ho capito che questo nome prestava il fianco all'aspetto più satirico e grottesco di ciò che stavo iniziando a mettere in piedi. Inoltre mi permette un sacco di giochi verbali e non solo, nelle canzoni, nei comunicati, sul palco, sul web.

Quindi non hai iniziato come one man band... ci puoi raccontare qualcosa a proposito dei tuoi precedenti musicali?
Ho iniziato a suonare, come tanti, ai tempi del liceo, primo anno di liceo scientifico; il primo amore è stata la psichedelia. Si suonava in due, in casa, con un amico che oggi fa, con lo pseudonimo di Lacatus, cose molto molto belle. Poi con altri amici/compagni di classe si è formato il gruppo, gli Adharma. Abbiamo suonato abbastanza in Sardegna e dopo il liceo ci siamo spostati tutti a Bologna dove si è proseguito. Nel 2005 abbiamo pubblicato un EP per Jestrai; nell'aprile 2008 abbiamo registrato un secondo disco che però non è mai stato pubblicato poichè nel gennaio 2009 ci siamo sciolti. Quindi ho sempre e solo suonato in un gruppo, nello stesso gruppo, con gli stessi amici, sempre. Chitarra, tastierina, voce. Scrivevo i pezzi che in sala venivano fatti a pezzi e rimessi insieme dagli altri due componenti, strumentisti molto dotati e prorompenti. Per cui il mio ruolo, da un punto di vista esecutivo, era molto limitato. Non era necessario che facessi di più che cantare e, con la chitarra, creare un collante tra le svisate di sintetizzatore e il macello di batteria. Da qui, appunto, il dubbio su cosa fare, o meglio, come farlo, da solo.

Da dove deriva la passione per i cantautori italiani che, in una persona della tua età , trovo piuttosto insolita?
Non penso sia molto insolita, sai? Poi è vero, ci si circonda di persone simili a se stessi, in un qualche modo; ed io conosco un sacco di miei coetanei che adorano ed ascoltano compulsivamente, come me, i cantautori.
Nel mio caso specifico, comunque, ci sono cresciuto, in casa si ascoltava prevalentemente quello.
Poi pian piano, negli anni, li ho riscoperti, magari dopo averli abbandonati e ritornandoci per via traverse, attraverso canzoni a me sconosciute o dischi sentiti solo nominare.
Oppure scoprendone di "nuovi", magari non frequentatissimi dall'autoradio di mia madre, come Gaber o Ciampi.
Ascolto molta musica straniera e attuale, dei generi più disparati: è la cosa che mi stimola di più, mi diverte, mi incuriosisce; cerco lì il mio suono. Ma sentire Io se fossi dio di Gaber o La domenica delle salme di De Andrè o La sera dei miracoli di Dalla è sempre un colpo a cuore e cervello, mortale, unico, irrinunciabile. Precisissimo. Ciò con cui confrontarsi sempre e a cui tendere.

Però ad un certo punto ci fu l`esplosione del punk che sembrò azzerare tutto, ed i giornali, soprattutto quelli rivolti ai più giovani, trattavano quello che c`era stato prima (cantautori e progressive soprattutto) come se fosse merda pura. Oggi mi capita sempre più spesso di incontrare ragazzi giovani che vanno a riscoprire il progressive... si tratta di uno dei soliti ricorsi storici, di un contrasto tipicamente generazionale (per cui una generazione rifiuta quello che la generazione precedente amava, nel nostro caso punk e new wave), oppure c`è dell`altro?
Sembrò azzerare tutto, ma non credo lo fece sinceramente. Sono rimaste molto sacche di fedeli, intaccati dal punk.
Prima di dilungarmi in discorsi articolati (e per i quali probabilmente non sono sufficientemente preparato) ti faccio l'esempio più vicino a me, cioè quello dei miei genitori, nati a metà anni '50, che a fine anni '70 misero in piedi un radio libera, estremamente politicizzata (e aggiungo anche: seriamente impegnata). Colonna sonora ideale: cantautori e progressive (o grandi gruppi rock del decennio). Il punk non li ha minimamente sfiorati. E se è vero il detto genovese "dagli alberi delle pere mele non ne crescono" questo ha permesso una certa continuità . E poi credo fermamente che di chi ci spiega cosa accade e come accade (a noi come individui, a noi come gruppo di persone) non si possa fare a meno. Che sia un cantautore, un regista, uno scrittore. Sul prog ho un'idea: è espressione dell'uomo meccanico, dell'uomo-funzione (nel senso matematico del termine). Musica da ingegneri, da laureati in logica o fisica. Questo aspetto, tradotto in estetica musicale, lo rende profondamente attuale se liberato da orpelli barocchi e freakettoni che, invece, fanno apparire stantia, puzzolente di lavanda, gran parte della produzione progressive.
Se prendiamo la canzone Starless (da “Red”, dei King Crimson) possiamo sentire uno splendido, riuscitissimo esempio di ciò che una certa sperimentazione sulle forme rock ha prodotto... negli ultimi quindici anni!
Ci sarebbe poi da dire che nella società dei consumi c'è spazio per tutti: ognuno può trovare allegramente posto nella più consona categoria di acquirente. Ma è un discorso lungo e, anche per questo, ci vogliono armi ben collaudate.

Pensi che la tua musica possa essere definita come `sperimentale`?
Attribuisco all`aggettivo "sperimentale" un connotato estremamente positivo. Per cui non credo di dover essere io a risponde. Sarebbe come se mi facessi i complimenti da solo.

Al momento il tuo materiale viene pubblicato unicamente in rete, si tratta di una scelta iniziale oggi `quasi` obbligata o ci sono dietro delle considerazioni più complesse? E, soprattutto, si tratta di una scelta provvisoria o di tipo più o meno definitivo?
Allora, è una scelta iniziale, "obbligata" ma non sofferta, anzi. Sicuramente è necessario e l'aver messo i pezzi online mi ha permesso di partire con i live, di avere contatti, ecc. Ed è anche molto divertente: ho registrato i pezzi in casa col pc e li ho messi online immediatamente, dopo aver regolato gli ultimi volumi. Il mio progetto a lungo termine è quello dei PACCHETTI TEMATICI, ovvero cartelle scaricabili che contengano contenuti differenti (musica, video, collage, racconti, disegni, ecc.) tutti legati dallo stesso tema (che di volta in volta caratterizza ogni pacchetto); è però un progetto che richiede molto molto tempo (che non ho, per ora) e collaboratori di fiducia (reciproca). Quindi, diciamo, è un progetto che rimane, che realizzerò, ma quando ne avrò la possibilità . In questo, internet come canale di fruizione diventa fondamentale. Anzi, l'idea nasce proprio per tentare un approccio differente al mezzo internet (differente dall'iter solito del disco in free download perchè non lo si vende). Ma credo che, nonostante ciò, un primo disco ufficiale serva, sia importante per poi tentare un progetto di quel tipo. Fondamentale è trovare un'etichetta che sia anche interlocutore ideale, disposto, curioso. E credo che i rapporti con Trovarobato (rapporti che ho da qualche tempo, come booking e non solo) possano funzionare anche in questo senso.

Ok, stai entrando all`interno di una tematica che mi interessa moltissimo. Tutto quello che dici deriva dal cambiamento epocale che ci coinvolge, dovuto (credo) all`informatizzazione della vita, ed è un argomento che mi piacerebbe approfondire. Innanzi tutto (partiamo dal presupposto di un CD al quale tu stesso crei la confezione o di qualsiasi altro supporto fisico scelto da te stesso) vorrei capire perchè non c`è più mercato?
Il mercato dei dischi è in via di estinzione perchè - mi verrebbe da dire - non ci sono più i dischi.
Mi spiego: il disco non lo si pensa più come tale, o, quanto meno, lo si pensa in un modo - forme, tempi, canali di fruizione, ecc. - totalmente dissociato da quelle che sono, oggi, le possibilità di accesso e reperibilità dei contenuti stessi di quel disco. Ergo, "fare un disco" significa trovare dei soldi per poter stampare su un unico piatto ("compro un pezzo, grazie") quante più canzoni possibile. Ma le canzoni, se voglio, me le trovo su internet. E su internet vedo pure la tua copertina mediocre o il tuo libretto trascurabile. E magari, se proprio sono in forma, mi stampo tutto ad alta risoluzione e la magia è fatta. Ma "non ci sono più i dischi" vuol dire anche che non c'è più spazio e tempo per la fruizione di musica in quei termini. Non so quale sia la causa e quale l'effetto. Sarei portato a pensare che il ruolo di motore spetti alle ragioni economiche (quindi la seconda ipotesi) e che il "mondo della cultura", per l'atteggiamento reazionario che spesso lo caratterizza, sia rimasto parecchio indietro. Parafrasando uno che ne ha dette di interessanti: la politica è sempre indietro rispetto all'economia. Intendendo, ovviamente, per politica la capacità di cogliere le trasformazioni e, senza subirle, pilotarle prendendo decisioni.
Ma forse è un argomento troppo ampio per poterlo trattare in un'intervista. E forse servirebbero armi ben affilate che probabilmente non ho.

Ma pure i concerti che non viaggiano su supporto e non li puoi scaricare gratuitamente mi sembra che registrino un forte calo di pubblico... non è che con l`innalzamento culturale medio e con la globalizzazione dei mercati è talmente aumentato il numero di chi fa musica che di conseguenza si è frazionato pure il numero di coloro ai quali è diretta?
Mi sembra che i concerti (parlo dei concerti di gruppi ancora non sbandierati da tutte le parti) siano frequentati soprattutto da musicisti. E per certo si può dire che tra dieci euro spesi per vedere due gruppi suonare e cinque spesi per un locale in cui la musica o è un sottofondo o è martellante, il pubblico (ma parlo anche - o soprattutto - della realtà univesitaria che indirettamente vivo a Bologna) si butta sulla seconda scelta. Il problema è culturale e con atti culturali (quindi politici) dovrebbe essere affrontato. Se apri un locale sai già che, nella prospettiva di voler fare dei live di gruppi belli ma poco conosciuti, ci vai a perdere quasi sicuramente (o, almeno, così si dice e mi sembra di poter dire). Anche in un posto come Bologna (che si può assumere come cartina tornasole dei mutamenti in corso o già completatisi in questo Paese), con i suoi studenti universitari in gran numero, il proprio passato, ecc. Non so, però, quanto in questo ipotetico "sacrificio imprenditoriale" sia rilevante un'oggettiva constatazione del trend generale e quanto, invece, lo sia una ormai radicata negligenza. Cioè: davvero se apri un locale nel centro di Bologna in cui far suonare gruppi interessanti dentro una programmazione ragionata, magari vendendo alcolici non a prezzi da strozzinaggio, ci rimetti sicuramente? Oppure viene molto più facile assecondare la richiesta (o quella che sembra tale)?
Credo, anche in questo caso, che il discorso sia profondo e ampio ed investa tanto l'approccio "imprenditoriale" degli italiani (sviluppare un'idea, metterci i soldi, rischiare di perderceli) quanto la capacità (o incapacità ) degli "attori culturali" di dettare nuove linee guida, di provare a scardinare certe dinamiche ormai consolidate.
E` un tema interessante ed importante (fondamentale direi); ma credo andrebbe osservato e analizzato attentamente.
Un'intervista forse non è il luogo più adatto.

Veniamo da epoche in cui il musicista viveva come `mantenuto` delle classi nobili (prima) e come ingranaggio dell`industria discografica (poi); in alternativa c`erano i cantastorie, i griot africani, gli hobo americani, i busker e (perchè no) i cantori in rima toscani e sardi... Quale prevedi che sarà (e quale vorresti che fosse) il ruolo del musicista negli anni futuri?
L'idea del mecenate che paga l'artista affinchè produca arte non mi disturba, non ne faccio un discorso ideologico.
Non credo che questo sia un limite o necessariamente una costrizione alla creatività . Produrre opere di qualunque natura richiede tempo, inevitabilmente sottratto al lavoro tradizionalmente inteso. Detto in parole povere: se lavori in una fabbrica o in un callcenter o in un cantiere ti verrà difficile, una volta a casa, ritagliare tempo e forze per fare il "pensatore". Quindi, in un qualche modo, credo sia fisiologico (o debba esserlo) l'essere retribuiti per quello che si produce artisticamente; poi, ovviamente, si dovrebbero fare dei distinguo doverosi: i cantores sardi, ad esempio, cantano negli ovili, senza necessità d'esser pagati. Questo perchè il loro compito sociale e culturale è quello di trasmettere ai posteri un sapere antico, tramandarlo immutato di padre in figlio; un lavoro perciò diverso - per intenti, modi, pubblico e modalità di fruizione di riferimento - da quello del "ricercatore" o del "musicista rock".
In entrambi i casi da te citati (il mantenuto, l'ingranaggio) al prodotto si attribuisce un valore economico. Non credo di sbagliare dicendo che, anche qui, il discorso muti col mutare del tipo di economia e, quindi, della concezione di "prodotto". In linea di massima credo che l'arte - dalla più piccola alla più grande - abbia il compito "storico" di spostare sempre un po' più in là la soglia del gusto. Vorrei che questo fosse un faro guida più che un ruolo da riconoscersi ad arte e artisti. Forse (ma anche qui il discorso si fa "scivoloso e profondo", per citare De André) questo ruolo gli viene già riconosciuto nella vastità e varietà di "settori di consumo" che il nostro sistema economico può vantare. E mi va bene così.
Mi rendo conto di aver tirato in ballo tante questioni per poi lasciarle andare. Allora, tirando le somme, rispondo così: quello che mi turba profondamente, guardando al Paese in cui sono nato, sono cresciuto e vivo, è un gap profondo tra la produzione culturale (d'ogni sorta: dal cinema della grande distribuzione al festival organizzato da Rockit) e la quotidiana realtà sociale subita (ma neanche troppo) da tutti noi. Come ho già avuto modo di dire siamo un popolo di "consapevoli rassegnati". Non credo che l'impegno debba essere un imperativo o un obbligo da imporsi a chi realizza opere d'arte, anzi. Ma credo semplicemente che quando questo rapporto latita se ne vedono palesemente le conseguenze. Scrivere di "lazy sundays" londinesi piuttosto che di callcenter in Basilicata è comunque una scelta politica, civica, civile. Che, a mio avviso, pesa molto di più di un'intera tournée della Bandabardò a colpi di "saltiamo, beviamo, ritmo e felicità ".
Ed anche per addentrarci in questo terreno argilloso ci vorrebbero più tempo e più spazio.

A proposito di cantores sardi...... quella vocale sarda è una gran bella tradizione, pensi che in qualche modo possa averti influenzato?
Mi è capitato di vedere dal vivo i tenores di Neoneli, credo fosse l'estate 2006. Non avevo mai visto nulla di così sconvolgente dal vivo. Qualcosa di talmente violento, arcaico, profondo e pieno da spazzare via ogni idea di chitarrine e ritornelli e moda del momento.
Consiglio a chiunque ne abbia occasione di andare a sentire dal vivo (in una piazza? in un ovile?) i Tenores sardi. Nelle loro voci c'è tutta la Sardegna: il mare, le burrasche, la montagna, il maestrale, le bestie, le carestie, le leggende popolari, la tragedia, il legame indissolubile con la terra, l'uomo... Da quel momento ho deciso (perchè ne ho avuto una voglia imprescindibile) di usare in un qualche modo quel patrimonio. Proprio in questi giorni, mentre lavoro su pezzi nuovi, ho provato a creare delle basi usando solo la voce in loop. Già lo faccio, l'ho fatto. Ma ho provato a filtrare la voce ed usarla in registri differenti proprio per simulare o tentare d'avvicinarmi al canto a tenore sardo. Ovviamente ad un mio modo di vederlo, sentirlo, riprodurlo. Prima o poi, ne sono sicuro, farò un lavoro intero sulla Sardegna. Sarà un pacchetto tematico sulla mia Sardegna. Sto aspettando tempi maturi, sto aspettando di averne una visione più ampia e precisa possibile per poterne poi parlare.
Uno dei romanzi più belli che abbia mai letto in tutta la mia vita è “Il Giorno del giudizio” di Salvatore Satta, un sardo.
La visione dal vivo dei Tenores e la lettura di questo indescrivibile romanzo (un romanzo fuori da ogni scolastico criterio stilistico e narrativo) hanno rappresentato e rappresentano per me due momenti importanti per la mia conoscenza della Sardegna. Sono sardo, ci sono nato e cresciuto; ne ho vissuto (e ne vivo tutt'ora) odori, sapori, umori. Mi appartengono profondamente, istintivamente, senza che me ne sia dato spiegazione o descrizione. Ecco, i tenores o il romanzo di Satta sono questo: una spiegazione o descrizione pura, violenta, precisa di ciò che la Sardegna è; cioè ciò che ogni sardo si porta dentro da sempre.
Voglio rivedere uno spettacolo dei Mammuttones (maschera tipica del carnevale di Mammoiada). L'ultima volta avevo 10 anni credo. Quando accadrà , forse, potrò chiudere il cerchio e dedicarmi totalmente ad un lavoro sulla Sardegna.

Questa tua idea ricorrente dell'essere anche cronista della realtà che vivi trovo che esuli dalla tradizione cantautorale nazionale che, in linea di massima, mi sembra si rapportasse più a tematiche intimiste, fantastiche e/o metaforiche... trovo invece una certa similitudine con alcuni folksinger americani degli anni '60 (anche se in quello che fai mezzi e risultati sono chiaramente diversi)... Phil Ochs, ad esempio, che intendeva i propri dischi e le proprie canzoni come articoli di giornale... o Country Joe che distribuiva i dischi alle manifestazioni studentesche come fossero volantini di controinformazione... Li conosci?
Sinceramente non li conosco...non capisco nemmeno l'inglese, per cui quando ascolto roba straniera - e ne ascolto comunque tantissima - vivo un coinvolgimento diverso rispetto a quello generato dall'ascolto di Gaber o Dalla o De André.
L'idea di essere un "cronista" non mi piace: si corre il rischio di esser legati in modo pesante ad un momento specifico e questo rende il discorso poco lungimirante. Parallelamente, però, ho venticinque anni, lavoro in un callcenter e arrivo alla fine del mese facendo salti mortali e molte rinunce. Vivo in un paese reazionario, totalmente smarrito, governato da delinquenti (da un punto di vista intellettuale in primis, ma non solo). I miei colleghi sono persone preparatissime, laureate, con un sacco di esperienze lavorative ed umane. Ma sono rinchiusi lì. I miei amici vivono la stessa situazione, ma fuori dal callcenter. Una sorta di proiezione inebriata ed impotente d'un callcenter. Intorno vedo parenti, vicini di casa, compaesani che cambiano. Diventano sempre più irragionevoli, disperati e perciò rancorosi e vendicativi. Non hanno - o non trovano - strumenti per partecipare alla costruzione della propria vita di singoli cittadini in una collettività . Questo, tutto questo, si riversa nei rapporti umani, inevitabilmente, nel modo in cui li vivi, li pensi, li porti avanti. Si riversa negli affetti, nei ruoli, nei bisogni. Si riversa nel modo in cui concepisce il lavoro, il tuo, quello degli altri. Si riversa nei gusti, nei bisogni. Tutto ciò è descritto perfettamente - o quanto meno è quanto il mio modo di guardare le cose mi fa vedere - da episodi, fatti, discorsi, spettacoli, fraintendimenti collettivi che investono la nostra quotidianità di cittadini, spettatori, esseri umani e che io osservo come enormi e grotteschi cartonati simbolo di qualcos'altro.
Guardo all'Italia in questo modo, perchè il mio sguardo è questo. Ed allora se emotivamente mi turba profondamente una fotografia (apparsa sul Corriere nell'estate 2007 se non sbaglio) di una donna italiana che prende il sole accanto al cadavere di due ragazzine rom appena annegate, sento il bisogno di scrivere in proposito, per esorcizzare ed esorcizzarmi.
Dentro, però, ci va a finire di tutto: le riviste che trovo a lavoro (Donna Moderna), abbandonate sui tavoli dalle mie colleghe; ci finiscono citazioni da canzoni estive degli anni '60 che sentivo da bambino alle sagre del mio paese; ci finiscono i cori dei tifosi all'ultimo mondiale; ci finiscono frasi ricorrenti televisive («saluto tutti quelli che mi conoscono») che mio malgrado ricordo a memoria; ecc. Questo per dire che non voglio che le mie canzoni siano cronaca anche se della cronaca non voglio fare a meno. Ma voglio che guardino alla cronaca in modo tale da renderla simbolo di qualcos'altro. Che poi, mi pare, è quello che alcuni cantautori italiani hanno fatto (soprattutto, direi, De Andrè e De Gregori). L'intimismo non mi interessa, lo rifiuto. Ovviamente intendo l'estetica intimista.
Quella che, stupidamente, ritiene che per parlare di sè si debba necessariamente ripetere mille volte "io", "dentro", "male", ecc. con autoindulgenza e che, per contro, se s'affrontano questioni collettive non ci sia spazio per mettercisi in mezzo. Credo che in “Storia di un impiegato” De Andrè abbia detto di sè molto di più che non in "Volume VIII" in cui tentò, influenzato da De Gregori, un approccio intimista.
E allora concludo: prendere la cronaca, trasfigurarla - ingigantendola o rimpicciolendola, truccandola o spogliandola completamente - per renderla simbolo lungimirante di qualcos'altro; ed arricchire il discorso con i più disparati elementi e immaginari, comprese le proprie idiosincrasie, le proprie difficoltà , le proprie mancanze.
Questo mi piace fare. Costruire.

Ma nelle tue canzoni e in quello che racconti durante i concerti quanto c'è di reale e quanto di fantasioso... e per fantasioso intendo anche quei fatti che partendo da un fondo di realtà vengono comunque in parte modificati?
Sempre di più e sempre più organicamente le gags, i racconti brevi, le battute, stanno diventando parte costitutiva e strutturale dei miei concerti. In questo alcune cose sono vere, altre non o sono. Quando dico di esser andato a lavoro e averci trovato Gramsci ovviamente è falso, se pur veritiero. La storia di mia nonna (che in quinta elementare menò la maestra fino a romperle 3 costole) è vera, per esempio. poi sappiamo che ciò che è vero, a seconda di dove viene collocato all'interno di un discorso/rappresentazione, può rivelarsi in sembianze inquietanti, grottesche, ironiche. Idem dicasi per il "falso".

Questo tuo modo di alternare canzoni, racconti e gags potrebbe far pensare a Giorgio Gaber, negli spettacoli di Gaber era però tutto studiato a puntino e non c'era spazio per l'improvvisazione e/o per il caso... invece a me questo tuo modo, che cerca di provocare e coinvolgere anche il pubblico, mi sembra più affine al primo Benigni (chiaramente mi riferisco ad un ipotetico Benigni privato della comicità più ridanciana...), tu cosa ne pensi?
Gaber è una delle cose più belle che ci sia. Non riesco a pensare le canzoni isolate, una tracklist fredda, all'antica.
Per cui se le immagino da scaricarsi sul web le vedo inevitabilmente con immagini o racconti (da qui l'idea del pacchetto). E dal vivo, dove certi elementi che in registrazione vengono meno, per sottolineare l'aspetto ironico e polemico, non riesco a non pensarle in un flusso continuo di gags, improvvisate o meno. Insomma, se tiri fuori Gaber mi emoziono. Come già ti ho detto non conosco il primo Benigni. “Berlinguer ti voglio bene” è, tra ciò che conosco, ciò che di più datato lo riguardi. Ma, come già mi hai detto, il Benigni a cui ti riferisci è precedente [Nda: Iosonouncane si riferisce ad un dialogo che abbiamo avuto in occasione di un concerto nel quale, in realtà , io mi riferivo agli spettacoli pubblici del periodo fine anni `70 prima metà degli anni `80]. Mi informerò.
Pian piano sto limando certe cose. Alcuni elementi, piccoli racconti, battute venute fuori nei live con l'improvvisazione, sono diventate parte strutturale e organica del concerto. Alcune sono fisse, altre aperte, nel loro canovaccio, alla situazione, all'interlocutore con cui polemizzare.
Sono una persona molto polemica.

Come nascono le tue canzoni, prima i testi e poi le musiche o viceversa? Assumo subito una veste definitiva o vanno a modificarsi con il tempo?
Non ho un metodo di scrittura perchè non ho un momento di scrittura.
Ho orari molto spezzettati per il lavoro che faccio. di conseguenza il modo in cui scrivo (o lavoro alla musica) è molto spezzettato.
Alcuni pezzi sono nati prima musicalmente, altri erano testi pronti che ho musicato. Alcuni erano prose che ho adattato a musiche pronte o quasi pronte. I pezzi cambiano in continuazione, di live in live.
Alcune volte sono partito dal titolo (come per esempio Il famoso goal di mano). Una costante è la mia agenda in cui appunto compulsivamente singole parole o associazioni di parole, modi di dire, idee sparse, versioni in prosa delle canzoni (come per esempio La macarena su Roma, che originariamente era una sorta di soggetto per un corto). Insomma, non ho un metodo. Ma direi che una costante, la costante unica e preponderante, è una continua e feroce autocritica, che in passato mi ha portato a volermi sbarazzare di ciò che scrivevo dopo pochi mesi. Ora non mi succede più.
Nell'agenda appunto anche idee per il pacchetto tematico, per quello cui sto lavorando o per quelli futuri (ho già tre o quattro canovacci sui quali mi piacerebbe lavorare). Appunto idee per piccoli video, per dei collage o ritratti da fare. Per i live.
Non voglio essere il cantautore che pensa la musica solo come accompagnamento per le parole.
Voglio fare ricerca sulla musica tanto quanto sulle parole. Non voglio essere il musicista rock tradizionalmente inteso che sale sul palco ed esegue una dopo l'altra le canzoni di cui dispone, dicendo il titolo all'inizio e un grazie alla fine. Non mi piace. O, meglio, soprattutto, non mi interessa. Non mi sembra utile, necessario, efficace. Ma anche tutto questo discorso è mosso dall'autocritica feroce di cui parlavo che, credo, sia imprescindibile. A meno che non si voglia leccare il culo al pubblico (oltre che a se stessi).

C'è qualche musicista in Italia al quale ti senti vicino come attitudine?
No, totalmente no, anche se ci sono delle realtà con le quali mi sembra di condividere piccoli brandelli d'attitudine.

Iosonouncane e il calcio... semplice tifoso o anche giocatore? Questo è un bell'argomento. Ex giocatore, dai sei ai tredici anni. Ex tifoso inferocito. Ora non praticante, nè fuori nè dentro il campo. Ma ancora in grado di esplosioni di pianto e violenza per un goal di Del Piero al mondiale.
Soprattutto, però, estremamente affascinato da tutto il rituale, dai collegamenti da bordocampo fino al poster in camera, passando per il linguaggio di telecronisti e calciatori, sponsor e cori, spogliatoi e tatuaggi.

Ritorno su quello che tu chiami 'pacchetto tematico', un'idea che trovo interessante e innovativa anche se ancora non ho ben chiaro come dovrebbe funzionare. Penso che riuscirò a chiarirmi completamente le idee solo quando vedrò il progetto già realizzato ma, intanto, volevo chiederti come dovrà avvenire la diffusione: tramite internet gratuita, tramite internet non gratuita, oppure per posta e/o ai concerti attraverso qualche tipo di supporto?
Parto dal presupposto che internet c'è, non solo come dato fattuale, ma come possibilità concreta. E parto dal presupposto che ogni strumento, ogni "arma", puoi puntartela al piede o in alto: questo può fare una differenza enorme. Detto ciò trovo ridicolo e svilente il processo "registrazione, stampa, distribuzione, vendite zero, free download arreso di canzoni abbandonate a se stesse oppure trattenute per la maglia senza veramente lasciarle andare". Ho pensato a quale possibilità internet può dare - in fase di "creazione" - e sono arrivato alla conclusione che intrinseca al mezzo è la possibilità , se non la imprescindibilità , dell'unione tra "arti" diverse (o, meglio, tra files di natura diversa, perchè di questo stiamo parlando); con la possibilità che solo internet può dare di avere gli stessi tempi di fruizione, la stessa facilità di condivisione, la stessa immediatezza.
Da qui l'idea - che sento molto vicina alla mia formazione, al mio gusto, alla mia attitudine - di prendere un tema (io scrivo sempre per temi, non riesco a fare diversamente se non in casi rari - e apparentemente tali) ed affrontarlo coerentemente ma con forme e mezzi diversi: canzoni piuttosto che video o fotografie o racconti o collage o disegni o giochi di parole o chissà cosa vorrò fare. Il tutto, per usare un termine specifico e imprescindibile, compresso nello stesso formato rar o zip, a creare una sorta di custodia virtuale. Certo, peculiarità del pacchetto tematico (peculiarità conseguente alla peculiarità stessa di internet) è la necessità , per ogni file, di parlare pienamente del tema di base ma dalla propria personale prospettiva. Chi scaricherà il pacchetto si ritroverà sul pc un file rar che, aperto, si rivelerà suddiviso in sottocartelle (tipo "musica", "video", ecc.) ognuna delle quali conterrà dei files audio o video o jpg o word che daranno, ognuno, la propria personale versione dei fatti. Ovviamente so benissimo di esser circondato da feticisti ed io pure lo sono. Quindi per ragioni di sopravvivenza (ho già risposto alla domanda sulla retribuzione dell'artista) si imporrà la necessità di una realizzazione su supporto fisico di tutto ciò. Se accadrà - e come forse ti ho già detto conosco gli interlocutori ideale per un discorso del genere - dovrà esser visto e vissuto come la possibilità per far qualcosa di nuovo, che si discosti dalla palla del cd con copertina e testi e credits ecc. virando verso la multimedialità e cercando di renderlo diverso da ciò che sarà il pacchetto tematico virtuale (in free download). Spero di esser stato chiaro. Mi rendo conto che è più facile da pensarsi che da spiegarsi.

C'è una domanda che avresti avuto piacere di ricevere e non t'ho fatto?
E` da quando sono piccino che parlo da solo mentre faccio la cacca. Ho risposte pronte per centinaia di domande. Quindi direi tante e nessuna.

link: iosonouncane



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