tim buckley    di e. g. (no ©)
(questo articolo era già stato pubblicato, in modo non conforme agli intendimenti dell`autore e con il titolo “Cantare la voce”, nel N° 33 della rivista Blow Up)




«questo lavoro non va assunto
come un ascolto da subire passivamente,
ma come un gioco in cui si rischia la vita
»
(Demetrio Stratos)


...navigatore astrale...
Non sono e non sono mai stato un tipo servile,
eppure esiste una persona a cui dovrei baciare
i piedi tutte le sere, Riccardo Bertoncelli.
Quali e quanti motivi dietro a tanta reverenza?
Uno solo, ma basta e avanza, grazie a lui ho
conosciuto la musica di Tim Buckley. E cercherò
di essere anche patetico, oltre che servile, dato
che l'umana ignominia non ha mai limite.
Quando vidi per la prima volta quel volto nelle
copertine dei dischi, quegli occhi, quel sorriso,
fu subito amore perchè vi vidi specchiato tutto
quanto avevo dentro; e quando poi ascoltai per
la prima volta quella voce capii che avevo
finalmente trovato chi riusciva ad esprimere per
me tutto ciò che io non riuscivo ad esternare. Il
volto e la voce di un inguaribile romantico
sognatore idealista (per chi non crede alle
coincidenze diciamo che nacque nel giorno di S.
Valentino). Il volto e la voce di un navigatore
astrale. Perchè il mondo non ha limiti, la vita
non ha una fine, e non sto certo parlando di
Dio. No, l'ascolto delle canzoni di Tim Buckley
non è mai stato per me un banale passatempo
ma ha sempre comportato un coinvolgimento
interiore talmente radicale da portarmi spesso
sull'orlo del pianto, da far salire quel groppo
alla gola che solo un amore senza riserve può
giustificare. Capirete quanto mi piacerebbe
condividere con tutti un'esperienza così forte e
capirete la mia delusione quando mi rendo
conto che Tim Buckley rimane tuttora una
passione per pochi intimi. Pensate che per lui
non c'è stato nessun album tributo quando,
una dozzina d'anni fa, simili dischi uscivano a ritmi vertiginosi.
Eppure qualcosa mi dice che anche per Tim
Buckley potrebbe essere finalmente arrivato il
momento della glorificazione. Nel corso degli
anni '90 abbiamo infatti assistito a una sua
parziale riscoperta; addirittura è plausibile
l'ipotesi per cui, neanche in vita, egli abbia
mai raggiunto la popolarità di cui è stato
oggetto in questo decennio. Una popolarità scandita dalla messa in commercio di alcuni
CD contenenti registrazioni dal vivo o versioni
inedite di brani già noti, dalla riproposizione
di brani del suo repertorio da parte di una cerchia
sempre più numerosa di musicisti e infine dal
ritardatario album tributo "Sing A Song For You"
che ha visto la luce solo pochi mesi addietro.
Sicuramente ha contribuito a ciò il successo
commerciale del figlio Jeff, che oltretutto è
scomparso all'apice di tale successo e in
maniera molto più spettacolare di quanto aveva
fatto il padre. Comunque sia ci sono tutti i
presupposti per una ristampa dei sui dischi
(alcuni di essi sono praticamente introvabili) se
non per il fatidico cofanetto che li raccolga in
toto. Per coloro che nell'attesa vogliono
avvicinarsi a Buckley attraverso le ultime uscite
diciamo che "Morning Glory" del 1994 altro non
è che una ristampa delle "Peel Sessions" con
aggiunti due brani registrati per un programma
della BBC del 1974, Dolphins e Honey Man
(curioso il fatto che i musicisti accompagnatori
in questi due brani sono dei sessiomen inglesi:
il bassista Tim Hinkley, il batterista lan Wallace,
ex King Crimson, e il chitarrista Charlie Whitney,
ex Family), mentre...

Tutto quel giorno, fino al calar del sole,
sedemmo a goderci carni infinite e buon vino.
Come il sole s'immerse e venne giù l'ombra,
gli altri dormirono presso il cavo d'ormeggio.
Ma per mano prendendomi lontano dagli altri compagni,
Circe mi fece sedere e vicino si stese e chiedeva ogni cosa.
lo dunque tutto le dissi per ordine,
e poi mi parlava parole Circe sovrana:
«Così tutto questo è compiuto; ma ora tu ascolta
come io ti parlo: te lo rammenterà ancora il dio.
Alle Sirene prima verrai, che gli uomini
stregano tutti, chi le avvicina.

...angoscia nell'anima...
Buckley è il perfetto portavoce del cosiddetto
mal di vivere, di quell'inquietudine letteralmente
così ben descritta da Pessoa. Fin dagli esordi la
sua voce, la sua immagine e tutto ciò che lo
circonda trasmettono un'aura di rassegnata
malinconia che invita a ripiegare su se stessi.
Forse è il caso di spezzare una lancia nei
confronti dell'eponimo disco d'esordio che è
molto meno acerbo di quanto ci è stato sempre
fatto credere. Teniamo conto che si tratta
dell'opera prima di un ragazzo di soli 19 anni
(per dare un metro di paragone, diciamo che
Paul McCartney, il più giovane dei quattro,
quando uscì il primo disco dei Beatles aveva 21
anni e lo stesso dicasi per Bob Dylan). Inoltre
"Tim Buckley" presenta già quelli che saranno
forse i suoi collaboratori più importanti, da una
parte il poeta Larry Beckett, una collaborazione
che durerà fino all'ultimo disco pur con
qualche interruzione, e dall'altra il chitarrista
Lee Underwood che rimarrà accanto a Buckley
per tutto il suo periodo creativo
rappresentando un punto nodale della sua
musica. I musicisti sono sessiomen di lusso
come Van Dyke Parks, James Fielder
(bassista dei Blood Sweat & Tears) e Billy
Mundi (batterista delle Mothers Of Invention.
Già la prima strofa dell'iniziale I Can't See You
definisce alle perfezione le qualità innate di
quella voce calda dal tono irrimediabilmente
dolce-amaro, e già da quella prima strofa non
può che essere amore. Non mancano i difetti,
a partire dalla produzione di Paul Rothchild,
noto per il suo lavoro con i Doors, che si
dimostra inadeguata nel dare la giusta
prospettiva al mondo di Tim (molto più
indicato sarebbe stato un Joe Boyd). Prendete
Grief In My Soul dove l'arrangiamento folk
rock leggero in stile Byrds è tutt'altro che
perfetto ad esprimere la filosofia del brano.
Tre canzoni mostrano già la sua
grandezza: Wings, Song Of The Magician e
Understand Your Man. La prima è purtroppo
sciupata dal banale arrangiamento d'archi di
Jack Nitzsche, inutile orpello a sottolineare una
voce che in realtà non aveva bisogno che di se
stessa e di dare libero sfogo alle proprie
possibilità . Sicuramente più riuscita l'altra
ballata, Song Of The Magician, dove il
clavicembalo di Van Dyke Parks crea
un'atmosfera sognante anticipando quello che
sarà in seguito il ruolo ricoperto dal vibrafono di
David Freedman. Infine perfetto appare il blues
Understand Your Man, un terreno questo
sicuramente più congeniale alle mani di
Rothchild. Ma anche altri brani come Valentine
Melody
, Aren't You The Girl, Song Slovvly Song, It
Happens Every Time
, Song For Jainie e She Is
non sono affatto insoddisfacenti. "Tim Buckley"
contiene già quella tendenza all'allucinazione
che può avvicinare questa sua prima fase a
gruppi come l'Incredible String Band e che avrà
pieno compimento nel successivo...

Chi ignaro approda e ascolta la voce
delle Sirene, mai più la sposa e i piccoli figli,
tornato a casa, festosi l'attorniano,
ma le Sirene col canto armonioso lo stregano,
sedute sul prato: pullula in giro la riva di scheletri
umani marcenti; sull'ossa le carni si disfano.
Ma fuggi e tura gli orecchi ai compagni,
cera sciogliendo profumo di miele, perchè nessuno di loro
le senta: tu, invece, se ti piacesse ascoltare,
fatti legare nell'agile nave i piedi e le mani
ritto sulla scarpa dell'albero, a questo le corde ti attacchino,
sicchè tu goda ascoltando la voce delle Sirene.

...l'ascensione...
..."Live At The Troubadour", uscito nello stesso
1994, è completamente inedito e raccoglie brani
le cui versioni di studio si trovano su "Happy
Sad", "Lorca" e "Blue Afternoon". Il gruppo
accompagnatore è praticamente quello che
aveva registrato "Lorca", chitarra, basso e
congas, al quale si aggiunge però il batterista Art
Trip (lo stesso di Zappa e Beefheart). L'utilizzo di
batteria e congas sbilancia il suono in tale
direzione creando un certo appesantimento,
dato che la presenza del batterista lascia libero Carter C.C. Collins di scorrazzare con le sue percussioni sopra le righe, con risultati che a tratti sono davvero infelici. E` il caso di Gypsy Woman, peraltro perfetta sia per quanto riguarda la parte vocale sia per quanto riguarda le tessiture chitarristiche di Lee Underwood, e di Nobody Walkin' che contiene una incerta seconda parte 'santaneggiante'. Questo difetto è comunque un tributo da pagare a quegli anni e lo ritroviamo pari pari anche in altri dischi come "Goodbye And Hello" dello stesso Buckley, "Welcome To The Canteen" dei Traffic e, in misura minore, "Lark's Tongues In Aspic" dei King Crimson. Risultati nettamente più soddisfacenti vengono ottenuti in I Had A Talk With My Woman, Chase The Blues Away e Driftin'. Ci sono anche due brani inediti: il primo, Venice Matìng Call, è un inutile strumentale mentre I Don't Need It To Rain verrà in seguito proposta nella più riuscita versione registrata durante i
concerti europei dell'anno precedente.
Luci e ombre che in "Honeyman", uscito nel
1995, si trasformano in tenebre. A parte
l'onnipresente Dolphins, troppo bella per subire
oltraggi, e una Devil Eyes dove il leone sembra
voler ruggire ancora, anche se quello che emette
è solo un miagolio da gattino spaurito, il disco
non ha pregi, sia pure da riferire a qualche
brano inedito. Inediti sono solo i nuovi
arrangiamenti di Buzzin' Fly e Pleasant Street, e
fa davvero male sentire quei due gioielli
martoriati e ridotti al ruolo di annacquato soul
dagli occhi blu; il resto della scaletta proviene
dai due dischi minori successivi al capolavoro
"Starsailor".
Risale al 1999 la più recente ristampa delle
"Peel Sessions", che si intitola "Once I Was" e
contiene un ulteriore brano aggiunto: si tratta
del blues I Don't Need It To Rain, registrato dal
vivo in Danimarca e che, come scopriremo in
seguito, è mutilato di diversi minuti.
Nello stesso 1999 avviene l'operazione
archeologica più interessante con il recupero
e la pubblicazione, distribuita soltanto via internet, di "Works In Progress", un CD che contiene le prime versioni di alcuni brani che appariranno poi su "Happy Sad", dalle cui sedute di registrazione è tratto praticamente tutto il materiale proposto, e "Blue Afternoon". Ci sono anche Song To The Siren e due inediti, provenienti dalle stesse sedute, più, unica eccezione, The Fiddler che è lo
scheletro strumentale di Phantasmagoria In Two
e la cui incisione risale al 1967. Le prime
quattro canzoni del CD si presentano in abito
più grezzo, con le sole chitarre di Buckley e
Underwood accompagnate da un
contrabbassista non identificato (le note di
copertina non sono molto precise e in Buzzin'
Fly
, infatti, c'è anche uno strumento ritmico
tipo maracas non accreditato). Gli altri brani
sono invece eseguiti dalla formazione di "Happy
Sad" (vibrafono, congas, contrabbasso, chitarra
elettrica e acustica), con l'eccezione di uno dei
due inediti e della traccia strumentale: in The
Father Song
il cantante si accompagna con la
sola chitarra acustica mentre in The Fiddler
batterista, bassista e tastierista provengono
dalla cerchia che aveva formato il parco
strumentisti di "Goobye And Hello". Fanno
parte del CD anche Wayfaring Stranger e la
cover Hi Lily, Hi Lo, che erano già note perché
stavano in "Dream Letter", Danang e la seconda versione di Ashbury Park che confluiranno poi in Love From Room 109, e il primo abbozzo di Ashbury Park che è l'altro inedito a cui accennavamo sopra. A favore di "Works In Progress" il fatto che solo due delle sedici tracce, cioè Sing A Song For You (Take 8) e Dream Letter, finiranno in "Happy Sad" nella stessa versione qui proposta.
Nel 2000 è infine uscito "The Copenhagen Tapes" con brani registrati nella capitale danese alla fine del 1968 da un gruppo comprendente Lee Underwood alla chitarra, David Friedman al vibrafono e l'ospite Niels-Henning Ørsted Pedersen al basso acustico. Gypsy Woman, Strange Feelin', Buzzin' Fly e una
I Don't Need It To Rain finalmente in versione
integra sono i brani che compongono il CD.
Nulla di inedito, quindi, in un disco comunque
ottimo anche se non dice nulla di più rispetto a
quel "Dream Letter" uscito un decennio prima...

Ma se pregassi i compagni, se imponessi di scioglierti,
essi con nodi più numerosi ti stringano.»
Così diceva, e a un tratto l'Aurora trono d'oro arrivò.
Allora per l'isola sparì la dea luminosa;
e io, tornato alla nave, spingevo i compagni
a salire anche loro, e a scioglier le gomene:
subito quelli salivano e sui banchi sedevano,
e in fila seduti battevano il mare schiumoso coi remi.
Per noi dietro la nave prua azzurra
buon vento mandava ch'empiva le vele, compagno gagliardo,
Circe riccioli belli, tremenda dea dalla parola umana.

...allucinazioni...
..."Goodbye & Hello" che vede un
miglioramento complessivo nel songwriting ma
anche un ulteriore appesantimento e un utilizzo
improprio dell'apparato strumentale. La
produzione è passata nelle mani dell'ex Lovin'
Spoonful Jerry Yester e il disco rappresenta il
tentativo di lanciare l'artista nel caleidoscopico
mondo della psichedelia, tentativo che pare
incongruente dato che i colori di cui Buckley
ama circondarsi sembrano essere
essenzialmente il bianco e nero, con appena
qualche striatura di blu(es).
I difetti principali delle canzoni consistono in
una tendenza eccessiva al melodramma, che
esplode in un'irritante title track
dall'impostazione decisamente 'progressive',
oltrechè nelle congas che raddoppiano la batteria e vengono lanciate in pestifere galoppate in grado di danneggiare una musica i cui presupposti non sono nelle savane africane ma in tutt'altro luogo. I risultati più insoddisfacenti di questa sconsideratezza sono riscontrabili in Once I Was, No Man Can Find The War, Pleasant Street e I Never Asked To Be Your Mountain. L'ultima, liberata da tal sovraccarico, sarebbe una melodia perfetta, fatta di quella stessa pasta che sarà poi di Buzzin` Fly e Happy Time. Interessante è invece l'estemporanea ispirazione ad atmosfere démodè che permea Carnival Song, Phantasmagoria In Two e Knight-Errant e che ritroveremo qualche anno dopo nel quadretto dedicato al Moulen Rouge. La splendida ballata Morning Glory e il viaggio psichedelico Hallucinations risultano invece essere gemme inattaccabili. I fili che trattengono la musica di Buckley nell'orbita che ruota attorno alla forma sono comunque sempre più sottili, e una volta spezzati è inevitabile il deragliamento da quell'orbita e l'inizio del viaggio verso il firmamento
della libertà .
Le note di copertina, come quasi sempre
accade nei dischi di quell'epoca, lasciano molto
a desiderare: di chi è l'armonica in Once I Was
per esempio? Quello delle note di copertina è
un problema che si pone spesso con Buckley, a
partire dal successivo...

Noi, manovrati presto tutti i paranchi, lungo la nave
stavamo seduti: il vento e il pilota la dirigevano.
Ma io ai compagni parlavo sconvolto nel cuore:
«O cari, non devon conoscere uno o due soli
i fati che a me svelò Circe, la dea luminosa:
ma li dirò che possiamo o morire sapendolo,
o scampare, evitando la morte e le Chere.
Delle Sirene dal canto divino per prima cosa ordinava
che fuggissimo e voce e prato fiorito.

...la resurrezione...
...e che, insieme alla pubblicazione delle "Peel
Sessions", rappresentò la vera resurrezione di
Buckley. Registrato a Londra nel 1968 dal
gruppo ideale, così scarno e raffinato, a mettere
in risalto quella splendida voce in tutte le sue
sfumature. Un gruppo limitato al fido chitarrista
Lee Underwood, al vibrafonista David Friedman
e al contrabbassista Danny Thompson dei
Pentangle (quest'ultimo qualche anno più tardi
sarà spalla indispensabile per John Martyn, un
musicista che senza dubbio era rimasto
abbagliato dal fascino di Buckley). Fin
dall'attacco di Buzzin' Fly è facile capire come il
cantante sia in piena forma e come la sua
grandezza non risieda in uno studio di
registrazione ma solamente nelle sue corde
vocali e nella sua capacità innata a comunicare
passioni ed emozioni. Buona parte dei brani
provengono da "Goobye And Hello" e
smascherano l'artificiosità di quel disco; in
questa nuova veste così essenziale tali canzoni
sono recuperate alla loro splendida fattura.
Immensa pure la cover di Dolphins dal
repertorio di Fred Neil che solo più tardi, troppo, verrà inserita nello scarso "Sefronia". Ci sono anche sette brani che all'epoca della pubblicazione di "Dream Letter" erano completamente inediti, fra cui una ripresa di You Keep Me Hanging On delle Supremes che, in quegli stessi anni, anche Demetrio Stratos aveva riproposto in lingua italiana insieme ai Ribelli (Chi mi aiuterà ). Fra gli inediti anche una Who Do You Love che non sembra essere il famoso brano di Bo Diddley (pur assomigliadogli per energia), mentre per un errore dei compilatori - probabilmente ingannati da Buckley che presenta la cover Hi Lily, Hi Lo come una 'canzone di carnevale' - viene accreditato nella scaletta il medley Carnival Song / Hi Lily, Hi Lo. La cosa più curiosa riguardo a questo errore proviene però dalle note di Lee Underwood che sostiene essere l'inesistente Carnival Song un brano inedito diverso da quello che era inserito in "Goodbye And Hello". In The Earth Is Broken, Pleasant Street / You Keep Me Hanging On e Wayfaring Stranger / You Got Me Runnin' possiamo ascoltare il cantante che, in perfetto
stile da folksinger, si accompagna con la sola
dodici corde. La perla del disco è però una
Hallucinations in libertà , davvero da brividi, con
Buckley che dialoga con il pubblico e con il
basso di Thompson che interpreta il ruolo
ritmico in una performance da favola.
Nel 1991 la Strange Fruit pubblica le sedute
radiofoniche registrate, sempre nel 1968,
durante lo show di John Peel da parte di
un'altra scarna formazione comprendente le
percussioni di Carter C.C. Collins in vece di
contrabbasso e vibrafono. La scaletta si
sovrappone chiaramente per buona parte al
disco dal vivo registrato solo tre mesi dopo (sto
parlando della mia versione su Demon perché
sembra che l'edizione americana su Rhino
contenga sei brani in più e potrebbe quindi
sovrapporsi per intero). Ancora una volta i brani
di "Goodbye And Hello" vengono proposti in
versione più convincente e Morning Glory, Once
I Was
e Hallucinations rinascono a nuova vita.
Accanto ad essi alcune anticipazioni come Sing
A Song Por You
(in seguito su "Happy Sad") e la splendida versione di Coming Home To You che poi apparirà con titolo diverso (Happy
Time
) su "Blue Afternoon". L'attacco di questa canzone, la cosa più emozionante che abbia mai ascoltato in assoluto, scorre con tale spontaneità da rendere difficile datarne la genesi, tanto che viene spontaneo immaginarla come antecedente alla creazione stessa dell'universo.
La resurrezione di Buckiey era stata comunque annunciata quando i This Mortal Coil, fra il 1983 e il 1986, avevano reinterpretato tre sue canzoni per i loro primi due album "It'll End In Tears" e "Filigree And Shadows"; in quegli stessi anni il rinnovato interesse intorno al suo nome era scandito anche dalla nascita di gruppi che in qualche modo lo elevavano a musa ispiratrice. Fra di essi vorrei segnalare i Cindytalk di "In This World" e gli Hugo Largo di "Metlle". Da non dimenticare inoltre Eugene Chadbourne che nel 1988 dedicò un'intera facciata di "The
Eddie Chatterbox Double Trio Love Album" alla
reinterpretazione di suoi brani. Il ruolo di questi
'profeti' è stato fondamentale nel riportare alla
luce la musica di Buckiey. Negli anni del punk e
della prima new wave, anni in cui erano stati
riscoperti Stooges, Doors...

A me solo ordinava d'udire quel canto; ma voi con legami
strettissimi dovete legarmi, perchè io resti fermo,
in piedi sulla scarpa dell'albero: a questo le corde m'attacchino.
E se vi pregassi, se v'ordinassi di sciogliermi,
voi con nodi più numerosi stringetemi!»
Così, le cose a una a una dicendo ai compagni, parlavo.
Intanto rapidamente giunse la nave ben fatta
all'isola delle Sirene, che la spingeva buon vento.
Ed ecco a un tratto il vento cessò; e bonaccia
fu, senza fiati: addormentò l'onde un dio.

...allegra malinconia...
..."Happy Sad", che però da un punto di vista
musicale fotografa per la prima volta l'artista
nella sua essenza reale, fin dal titolo che
raffigura quella situazione di felice malinconia a
lui tanto congeniale. Dal punto di vista
strumentale una particolare importanza va
attribuita all'inserzione del vibrafono che con il
suo suono metallico, limpido e conciso risulta
essere il miglior propulsore ritmico per la sua
voce e per la chitarra di Underwood; le congas
vengono utilizzate con parsimonia e, in ogni
caso, sono ridotte ad un ruolo meno invadente dall'assenza della batteria; infine l'utilizzo di un contrabbasso acustico dà il tocco finale alla definizione di quella magica atmosfera che regna su tutto il disco. Un'atmosfera senza tempo, in bilico fra canzone d'autore e jazz d'annata, che ci porta a sostenere paragoni con
"Astral Weeks" di Van Morrison. Zal Yanovsky (anche lui ex Lovin' Spoonful) affianca Yester alla consolle mentre a livello di scrittura Buckley fa tutto da se, latitando per la prima volta l'amico Larry Beckett, e realizza quindi il primo tassello di una trilogia più propriamente cantautorale. Vorremmo ribadire soprattutto l'importanza del chitarrista Lee Underwood, presente fin dal primo disco ma diventato ora unico contraltare solista alla voce di Tim, che dimostra di essere il solo in grado di capire e coadiuvare quella voce.
Del disco doveva fare parte anche Song To
The Siren
ma nonostante l'assenza di quel
gioiello siamo al cospetto di un capolavoro
assoluto. Abbiamo già accennato alla
splendida Buzzin' Fly, ma tutti i brani sono
perfetti per fattura e esecuzione e non esiste
nessun cedimento fra le righe di Strange Feelin',
Love From Room 109 At The Islander, Dream
Letter
, Sing A Song Far You e Gypsy Woman
in quest'ultima che Buckley inizia quel processo
di dilatazione della propria voce che porterà a
"Starsailor"). Love from Room 109... è
sottolineata dal rumore delle onde, ma non
possiamo certo parlare di musica concreata
trattandosi solamente di un trucco di studio
utilizzato come abbellimento per ambientare
suggestivamente il brano, alla maniera dei
Doors di Riders On The Storm e del Roger
Waters di Grantchester Meadows.
C'è tutto in "Happy Sad", dalla voce che si fa
urlo distorto ai ritmi sottilmente languidi.
Soprattutto ci sono una manciata di canzoni
d'amore che possiedono la stessa forza di un
Jacques Brel. Ma non può durare, in un regime
di felice malinconia è infatti molto più facile
imbattersi in un pomeriggio di depressione...

Balzati in piedi i compagni la vela raccolsero,
e in fondo alla nave la poserro; quindi agli scalmi
seduti, imbiancavano l'acqua con gli abeti politi.
Ma una gran ruota di cera col bronzo affilato
io tagliavo a pezzetti, li schiacciavo tra le mani gagliarde.
In fretta s'ammorbidiva la cera, che la premeva gran forza
e la vampa del sole, del sire IperÖone;
così, in fila, gli orecchi a tutti i compagni turai.
Essi poi nella nave legarono me mani e piedi,
dritto sulla scarpa dell'albero, a questo le corde fissarono.
Quindi, seduti, battevano il mare schiumoso coi remi.

...la morte...
...e Velvet Underground, era infatti rimasto
sommerso nel limbo dell'oblio. La sua morie,
avvenuta nel 1975, era stata una morte
artistica ancor prima che una morte fisica.
In "Look At The Fool", il suo ultimo disco de
l 1974, Buckley appare 'confuso come
un'ostrica', la sua voce suona appiattita se non,
quando scimmiotta spudoratamente Marvin
Gaye, impersonale. Le canzoni sono
appesantite da arrangiamenti ampollosi con il
gruppo di accompagnamento che lievita fino a
otto unità (chitarra, piano, piano elettrico, due
bassi, violoncello, batteria e congas) più una
sezione fiati e un terzetto di coriste. Soprattutto
non ce n'è una, di queste canzoni, degna di
essere ricordata e la loro essenza sembra
riflettere il brutto ritratto di copertina. Al suo
fianco non rimane più nessuno di quei musicisti che lo avevano accompagnato nei giorni buoni a parte, minuzia curiosa, il bassista Jim Fielder che viene ripescato fra i sessiomen del disco d'esordio.
Si è parlato di un Buckley distrutto da alcool e droghe, ma altri musicisti in situazioni simili sono riusciti a dare il meglio di se (emblematico lo Charlie Parker di Lover Man, ed è quindi pensabile che i risultati di "Look At The Fool" siano il frutto di un musicista che è entrato in un vicolo cieco, che ha bruciato tutta la sua creatività e che è stato domato dalle esigenze del business discografico e dall'insuccesso di pubblico e di critica.
Quindi la morte arriva al nadir della sua vicenda creativa e passa inevitabilmente inosservata presso il grande pubblico (che oltretutto non aveva mai eletto Tim Buckley al ruolo di eroe), lontana dal fascino morboso circondato da mistero e leggenda che aveva circondato in precedenza le morti della cosiddetta tripla J.
Passa inosservata e lascia solo un esiguo
numero di appassionati a tenere vivo il ricordo
della sua musica in attesa di quei tempi migliori
che tardano a venire. Infatti nè l'esplosione della
new wave, che con il suo romanticismo
decadente e malato aveva molti punti in
comune con l'estetica buckleyana, né
l'esplosione del revival psichedelico si
ricorderanno in un primo momento di questo
antesignano schivo e scomodo. Una morte che
fa seguito...

Ma come tanto fummo lontani, quanto s'arriva col grido,
correndo in fretta, alle Sirene non sfuggì l'agile nave
che s'accostava: e un armonioso canto intonarono.
«Qui, presto, vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei,
ferma la nave, la nostra voce a sentire.
Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera,
se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce;
poi pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose.
Noi tutto sappiamo, quanto nell'empia terra di Troia
Argivi e Teucri patirono per volere dei numi;
tutto sappiamo quello che avviene sulla terra nutrice».

...un pomeriggio amaro...
...che non in uno di euforia. "Blue Afternoon" è
il suo disco più claustrofobico, degno
antesignano del romanticismo malato di lan
Curtis. Su di esso sicuramente influì la
bocciatura da parte dell'Elektra di quello che
avreb ­be dovuto essere il suo nuovo disco e il
conseguente abbandono dell'etichetta con
accasamento presso la Straight, una succursale
della Warner diretta da Frank Zappa e Herb
Cohen che darà asilo anche al Beefheart di
"Trout Mask Replica". "Blue Afternoon" è
prodotto dallo stesso Buckley e risente un po'
sia della precipitazione con cui viene assemblato sia della contingenza che costrin ­ge le migliori canzoni del momento prigioniere nei cassetti dell'Elektra. Vengo ­no addirittura recuperati almeno due brani fra quelli bocciati al momento di definire "Happy Sad", e cioè Happy Time e Chase The Blues Away.
Nonostante questi presupposti il disco contiene alcune grandi canzoni, soprattutto ballate, a iniziare proprio da Happy Time e continuando con I Must Have Been Blind, So Lonely, Blue Melody e The Train. Canzoni plasmate da una voce che è in grado di esprimere a meraviglia quell'angoscia che da sempre attanaglia l'anima del cantante e che vanno considerate senza dubbio fra le sue cose migliori, e almeno una di esse, The River, è da considerare fra i suoi vertici assoluti.
A questo punto la Elektra decide di pubblicare
"Lorca", seppur senza la necessaria convinzione dato che il manager dell'etichetta Jac Holzman dichiarò che il cantante stava
facendo musica per se stesso. Il disco è
dedicato al grande poeta spagnolo e chiude
la fase propriamente cantautorale iniziata con
"Happy Sad". Il riferimento a Federico Garcia
Lorca non riguarda solo una certa affinità
elettiva ma, come ben indaga Luca Ferrari nel
suo "Thin Wires In The Voice" edito da Stampa
Alternativa, il concetto 'duende', cioè il 'demone'
che si insi ­nua sotto la pelle dell'artista
succhiandogli tutte le energie e la vita stessa.
Lo stesso demone incontrato da Robert
Johnson al crocicchio, la storia si ripete.
Le dichiarazioni di Holzman appaiono tutt'altro
che fuori luogo dato che le lunghe ballate
informali che compongono il disco, nelle quali si cerca di portare la forma canzone oltre i propri confini, sono destinate a un prevedibile insuccesso di vendite.
"Lorca" è un disco molto più pieno e corposo di quello che può apparire a un primo ascolto, una corposità che però si annulla nell'incedere lento della maggioranza dei brani e che raggiunge la massima sublimazione in quella splendida espressione della sofferenza inferiore che è Anonymous Proposition. In Lorca l'organo a canne di John Balkin e il piano elettrico di Lee Underwood creano quella stessa atmosfera stregata che sarà poi di Song To The Siren e Starsailor. In Driftin' e I Had A Talk With My Woman il blues viene rigenerato dalla sensibilità di un ragazzo bianco che ne da la propria interpretazione e non si limita alla scipita scopiazzatura dei bluesmen neri (la stessa attitudine che animerà in seguito Diamanda Galas). L'impressione è quella di un
meticoloso guastatore che riprende la splendida
melodia di brani come The River per dilatarla,
contorcerla e spremerla, e per poterla in se ­guito
frantumare all'infinito. La sola Nobody Walkin'
appare più ritmata e sembra voler riprendere
l'energia di Gypsy Woman evi ­tandone però la
lacerazione.
Se possiamo considerare "Blue Afternoon"
come una pa ­rentesi nell'evoluzione creativa di
Buckley, "Lorca" è invece il successore naturale
di "Happy Sad" e la premessa logica al viaggio
verso l'ignoto di...

Così dicevano alzando la voce bellissima, e allora il mio cuore
voleva sentire, e imponevo ai compagni di sciogliermi,
coi sopraccigli accennando; ma essi a corpo perduto remavano.
E subito alzandosi Perimède ed Euriloco,
nuovi nodi legavano e ancora più mi stringevano.
Quando alla fine le sorpassarono, e ormai
nè voce più di Sirene udivamo, nè canto,
in fretta la cera si tolsero i miei fedeli compagni,
che negli orecchi avevo a loro pigiato, e dalle corde mi sciolsero.

...la passione...
...a un lungo periodo di involuzione, quasi di
svuotamento, successivo al capolavoro
"Starsailor". Un crollo al quale hanno contribuito
vari motivi, a iniziare si ­curamente dallo sforzo
creativo tributato all'evoluzione presente nei dischi
precedenti. Ma ciò non basta a spie ­gare un simile
tracollo, e dobbiamo allora indagare
nell'insuccesso di pubblico e di critica incontrato
da "Starsailor": il primo durante i concerti
continuava a chie ­dere i vecchi brani, la seconda, a
parte rare eccezioni, nel migliore dei casi parlerà
di un album 'troppo difficile da ascoltare'. Inoltre
l'etichetta Straight era stata riassorbita
completamente dalla potente Warner che
chiaramente faceva pressione per avere un
disco più commerciabile. A questo punto va però
detto della per ­sonalità di Buckley, uomo
sicuramente timido, insicuro e intro ­verso. A tal
proposito pensate che aveva tenuto Song To The Siren ferma nei cassetti per tre anni, nonostante sapesse che era une delle sue canzoni migliori, solo per ­chè un'amica aveva ironizzato su una strofa che diceva 'sono confuso come l'ostrica' e soltanto
quando tale strofa fu sostituita con 'sono confuso come un neonato' si deci ­se a pubblicare il brano. All'uscita di "Starsailor" fa segui ­to un lungo periodo di inattività durante il quale svolge numerosi lavori e scrive la sceneggiatura di un film che dovrebbe essere in parte autobiografico e per il quale non riesce chiaramente a raccattare nessun finanziamento. A questo periodo dovrebbe risalire anche una non confermata attività come autista per la stella del soul Sly Stone, esperienza che qualora fosse vera porterebbe alla barzelletta: 'Where is Sly Stone's soul? In his driver'.
Infine cede alle pressioni e confeziona un album di corposo rhytm & blues urbano, come lascia intendere il titolo "Greetings From L.A.", che ricorda il suono di alcuni gruppi inglesi dei
`60 tipo Animals e Spencer Davis Group e con
alcuni tocchi tastieristici prossimi alle migliori
espe ­rienze garage; purtroppo la bontà di fondo
del disco è pe ­nalizzata da arrangiamenti
banalmente radiofonici. Brani come Hong Kong
Bar
, Sweet Surrender e Devil Eyes sono
comunque ottimi. Accanto al cambiamento
di direzione musicale va rilevato anche il
licenziamento di tutti i musici ­sti che gli
erano stati vicini nelle precedenti esperienze,
eccezione fatta per il percussionista Carter C.C.
Collins.
Un anno dopo, nel 1973, esce "Sefronia", album contraddittorio in quanto cerca di tornare alle vecchie atmo ­sfere ma è penalizzato da pomposi e insipidi arrangia ­menti d'archi che rendono ancor più peccaminoso il flirt con l'appiattimento da classifica. Per la prima volta, a conferma della stasi creativa, sono inclusi cinque brani che non portano la sua firma laddove i dischi precedenti erano tutti composti da brani originali. La situazione ap ­pare ancor più grave se pensiamo che sono proprio due di essi ad avere la palma d'oro per il miglior songwriting. Non bastasse, per la prima volta dopo "Goodbye And Hello", Buckley mostra propensione a seguire le mode del momento incidendo un duetto con la voce femminile di Marcia Waldorf (I Know l'd Recognize Your Face). Fra le cose buone vanno citate la versione di Dolphins di Fred Neil, che vede il ritorno di Lee Underwood alla chitarra, e i lievi brividi dispensati da Sefronia e Sally Go 'Round The Roses. Decisamente insignificante è invece la versione barocca di Martha di Tom Waits. Diamo però atto al 'navigatore astrale' di avere dimostrato un buon fiuto andando a
riprendere un brano del vecchio Tom, all'epoca
poco più che uno sconosciuto. L'impressione è
quella di un Buckley meno torturato e intenso,
come se fosse preda di uno sfaldamento interiore
che ha le caratteristiche di autentico calvario.
Non esistono pozzi senza fondo e miniere
inesauribili e dalla miniera Buckley era già
stato estratto un diamante della fattura di...

Ho galleggiato a lungo in oceani deserti
facendo del mio meglio per sorridere
Quando i tuoi occhi e le tue dita canterine
mi hanno teneramente attratto alla tua isola
E tu cantavi
«Naviga verso di me
Naviga verso di me
Lasciati abbracciare
Sono qui
Sono qui
Aspetto di averti»
Ho sognato che mi sognavi?
Dove scappavi quando ti rincorrevo?
Ora la mia folle imbarcazione si sta piegando
Relitto che si strugge d'amore sulle tue rocce
Per te che canti
«Non toccarmi
Non toccarmi
Ritorna domani
Oh, cuore mio
Oh cuore mio
Sfuggi alla tristezza»
Sono confuso come un neonato
Sono imprevedibile come la marea
Dovrei restare tra i frangenti?
Dovrei mentire con la Morte mia sposa?
Ascoltami cantare
«Nuota verso di me
Nuota verso di me
Lascia che ti abbracci
Sono qui
Sono qui
Aspetto di averti»


...epos: il canto della sirena...
..."Starsailor", che rappresenta insieme l'apoteosi e l'esaurimento del suo periodo creativo. Con esso, nel 1970, si chiude l'epopea di colui che, se il termine non fosse già stato utilizzato a proposito di altri, po ­tremmo definire come `The Voice'. Ma a questo punto è il caso di dire cosa è stato in realtà Tim Buckley: uno sperimentatore sulla voce - dai tratti operistici e con un'estensione dalle possibilità illimitate, caratteri ­stiche che fanno nascere spontaneo il parallelo con Demetrio Stratos - e sulla musica che con il tempo è andato a superare categorie come rock, folk, jazz e sperimentazione contemporanea per creare una for ­ma ibrida mai udita prima e di conseguenza di diffìcile assimilazione e di ancor più diffìcile commerciabilità . La differenza fra Stratos e Buckley è che il primo si è infrenato spesso nella pura sperimentazione mentre il secondo ha sempre legato la ricerca sulla voce alla canzone, pur cer ­cando di ampliarne i limiti e stravolgerne la forma. Lee Underwood giungerà a scrivere che Buckley è stato per la voce ciò che Hendrix è stato per la chitarra, Cecil Taylor per il pianoforte e John Coltrane per il sassofono. Vogliamo aggiungere la figura di Omette Coleman, del quale possiede lo stesso senso dell'armonia dettato dall'istinto. Per quanto riguarda la sperimentazione vocale, invece, oltre ai paragoni con Stratos è facile individuare un percorso che va dal dilaniato stile di Patty Waters fino a Cathy Berberian, che sappiamo essere stata un'influenza fonda ­mentale per il suo percorso creativo, per perdersi ancor più lontano nella sublime Billie Holiday. A differenza di Beefheart quella di Buckley non è un'estetica del brutto ma un'estetica della bellezza suprema portata alle estreme conseguenze, cioè a quella sublimazione al di là dei cui confini si trova il regno del kitsch; una ricerca utopica dell'assoluto e della purezza senza scorie. "Starsailor" rappresenta il punto di confluenza di tutto ciò, di quello che Buckley è stato e di quello che è, la realizzazione definitiva senza appello nè repliche di quelle che sono le sue idee. La voce è ormai uno stru ­mento a pieno titolo, seppur piegata all'economia dei vari brani, che passa da momenti di estrema dolcezza a urla dilaniate e deliranti che sgommano verso l'eter ­nità .
"Starsailor" è un disco dalla varietà incredibile di situazioni, sicuramente il più poliedrico di tutta la discografia. Song To The Siren e I Woke Up sono le ballate che rappresentano il lato più onirico dell'artista. Accanto ad esse brani più ritmati e convulsi come Come Here Woman, Monterey, The Healing Festival, Down By The Borderline e Jungle Fire bruciano di febbre intensa e liberatoria, premonitrice dei futuri bagliori no wave. Resta ancora spazio per l'innocente filastrocca Moulin Rouge e per l'orgia di voci Starsailor, che non ha nulla da invidiare ai migliori brani della sperimentazione vocale contemporanea. Rispetto a quest'ultima l'ope ­ra di Buckley non è però mai asettica e mantiene sempre la sua carica sensuale.
I suoni sono secchi e controllati, la loro resa è perfetta e gli interventi strumentali non sono mai so ­pra le righe. Passaggi di funk minimale si alternano ad esplosioni free in un gioco ritmico-melodico continua ­mente cangiante assecondato con esemplarità dalla batteria di Maury Baker e dalla chitarra, splendida come non mai, di Lee Underwood (quest'ultimo si produce in una serie di effetti veramente strabilianti senza tut ­tavia mai cadere nell'autocompiacimento). Ma le note positive coinvolgono anche il bassista John Balkin, il sassofonista Bunk Gardner e il trombettista Buzz Gardner, i rari tocchi degli ultimi due rappresentano la cosiddetta ciliegina nella torta e a questo proposito invito il lettore ad ascoltare la splendida introduzione di tromba che immortala Down By The Borderline.
Buckley, a differenza di Ulisse, rifiuta di essere le ­gato e si abbandona al canto e all'abbraccio delle Sire ­ne che, come aveva predetto la Maga Circe, è quanto mai distruttivo. Non c'è ritorno a casa per chi è uscito dai propri sogni alla ricerca dell'impossibile e a tale ricerca ha sacrificato tutti i propri equilibri. Per chi ha avuto occhi per guardare oltre le mura della propria prigione esiste solo la perdizione, quella perdizione così ben affrescata in quel voluttuoso inno che è Song To The Siren. Ma se vi fermate su qualche scoglio per ­duto fra i flutti degli oceani potete ancora sentirlo can ­tare: «...here I am, here I am, waiting to hold you...».


(I passi dal libro dodicesimo dell'Odissea sono tratti dalla versione di Rosa Calzecchi Onesti su edizioni Einaudi. La traduzione 'infede ­le' di Song To The Siren è mia. Ringraziamenti: Manuel Scorza (r.i.p.), Laura Bigiarini e Leonardo Severi)

Ps: questo è il collegamento con il sito dedicato a Tim Buckley: www.timbuckley.com



ANGOLI MUSICALI 2016  
  Torna al Menù Principale
 Archivio dell'anno 2011 ...

Gianluca Becuzzi e Fabio Orsi (intervista)  

Zeitkratzer  

Françoise Hardy & Sandie Shaw  

the Dead C  

Extreme (intervista a Roger Richards)  

ALTER@!  

Mark Hamn (intervista)  

ricercare la parola  

EAQuartett / EASilence / EAOrchestra / Grim  

Satan is my Brother / Yellow Capra: intervista a Luca Freddi  

Liu Fang  

Stefano Giust  

Paul Lemos (Controlled Bleeding)  

tim buckley  

John Butcher (intervista)  

le rose (intervista)  

gravida  

eugenio sanna (intervista)  

Daniele Brusaschetto (intervista)