Ho fatto fatica ad entrare in sintonia con questo disco: ad un primo approccio ho storto il naso per la messe di suoni sintetici che alle mie orecchie appaiono forse poco moderni, o perfino scontati. Non ho capito il modo in cui le strutture scomposte delle tracce erano state organizzate, e le melodie rarefatte non mi hanno sedotto.
Ma ci ho riprovato, e provato di nuovo. È stato durante un viaggio in auto in un giorno sereno che finalmente le complesse volute di “Distances” sono riuscite a conquistarmi, in modo da farmi comprendere come né i suoni dei synth, né la frammentazione, e neppure le melodie erano poco interessanti come mi erano parsi all’inizio. Ho spostato il fuoco della mia attenzione, ritrovando molteplici strati orizzontali e verticali all’interno dei quali si intrecciano strumenti acustici, ritmi giocosi e impreviste dissonanze.
A quel punto l’impressione è stata quella di trovarsi di fronte ad un’opera a cavallo tra la musica contemporanea ed una sorta di pop elettronico quasi new age, che con i suoi accenni glitch è in grado di elevarsi sopra i suddetti generi per venire a costituire un piccolo regno a sé, dignitoso e valido. Merito principale di tale disco, che pare abbia raccolto anche il favore del Piano Magic Glen Johnson, è quello di risultare estremamente sereno, ed al tempo stesso di facile ascolto, pur restando di fatto un’opera di musica sperimentale. Un equilibrio difficile e virtuoso, che Giulio Aldinucci ha saputo mettere in atto con grande maestria.
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