[riceviamo e pubblichiamo con piacere questo ritratto dello scomparso John Russell scritto dal carissimo Eugenio Sanna, chitarrista, improvvisatore, docente e organizzatore storico della scena pisana. A proposito di Russell e Sanna invitiamo inoltre il lettore alla riscoperta di queste interviste: intervista a John Russell, intervista a Eugenio Sanna, intervista a Eugenio Sanna]
Avevo conosciuto John Russell, nei primi anni ‘80 circa, frequentando il London Musicians Collective (LMC) a Londra. Un’unica enorme stanza, situata nella periferia della Gloucester Avenue, a cui si accedeva da una scala metallica esterna.
Per un modicissimo prezzo, si poteva assistere a un vero concerto di musica improvvisata e avere diritto a una birra e a un sandwich spalmato di margarina.
Nello stanzone del LMC, conveniva la maggior parte dei musicisti improvvisatori britannici, ma non solo: Roger Turner, Fred Frith, Martin Mayes, Marcio Mattos, Nigel Coombes, John Russell appunto, Derek Bailey, Evan Parker, Mike Cooper, Richard Beswick e molti altri animavano quei concerti, mentre a Londra, come al solito, imperversava un tempo atmosferico maligno e mefitico.
La figura di John Russell che in mezzo a quella moltitudine di musicisti interessantissimi, alcuni dei quali già noti a un pubblico internazionale, cominciava a emergere e a prendere forma, comunque sia era profondamente e intimamente legata a quanto avveniva a livello musicale in Inghilterra in quegli anni: veniva covato infatti qualcosa di estremamente innovativo e speciale.
In quel periodo mi recavo spesso a Londra, città che mi arricchiva musicalmente, trovando in essa, un fermento creativo e culturale non indifferente.
John Russell me lo aveva presentato anche Derek Bailey, nel corso di una seduta di improvvisazione, alla quale avevo partecipato e che si svolgeva nella casa di quest’ultimo. In quello stesso pomeriggio, in quella casa, aveva suonato il campanello anche Nigel Coombes, che era arrivato munito di violino.
Nel corso di quel piccolo concerto pomeridiano, a cui avevo partecipato come musicista, ero letteralmente affascinato e elettrizzato da quanto mi avveniva attorno.
La musica veniva prodotta istantaneamente. Era estremamente libera, priva del tutto di consonanze e sopratutto slegata da qualsiasi concetto di ortodossia musicale, almeno rispetto a quanto da me, fino a quel momento, praticato e ascoltato.
Pur avendo degli elementi in comune con il suo maestro Derek Bailey, con il quale aveva studiato sopratutto i rudimenti tecnici, nel suo approccio alla chitarra John Russell sembrava più propenso a sviluppare, per lo meno in quel periodo iniziale del suo rapporto con la musica totalmente improvvisata, un sound che tendeva a mantenere intatti degli elementi melodici, dati sopratutto dall’uso dei suoni armonici che venivano però bruscamente interrotti da suoni più grezzi e materici, martellati, dirompenti, da graffiature del plettro sulle corde, nel tentativo di creare delle vere e proprie matasse sonore, in cui pescare, ri-cercare e cercare dentro, altri suoni, che avrebbero potuto emergere, attraverso un gioco talvolta assai serrato e spregiudicato, dotato di una profondità di campo, nella sua azione sonora.
Il plettro che usava, come del resto Derek Bailey stesso, era grosso e di calibro alto, duro, rigido e massiccio, quasi dello stesso genere che potrebbero usare molti chitarristi manouches.
Tutti elementi questi che hanno a poco a poco costituito una sorta di lessico e vocabolario in uso oggi presso la maggior parte dei chitarristi improvvisatori, ma non solo.
In un concerto al vecchio Soho Poly Theatre, nel cuore della Chinatown di Londra, Derek Bailey aveva presentato il suo pupillo preferito ad un pubblico folto e attento, dicendo: «questo è John Russell… mio allievo … si esibirà in solo...»; e con grande orgoglio e affetto, gli aveva dato una pacca di incoraggiamento sulla spalla.
Ho avuto modo di conoscerlo meglio anche nell’intimità della sua casa, scoprendone l’umanità e la sensibilità.
Era una persona molto generosa, gentile, disponibile, aperta al dialogo e sopratutto paziente verso di me che non sapevo l’inglese, avendo studiato alle scuole solo il francese, lingua che lui non conosceva assolutamente. Comunicavamo tra di noi sia a gesti, con un grande spirito ironico che emergeva dagli imbarazzanti equivoci, del tutto surreali ma sempre molto divertenti, in cui spesso incappavamo durante una simile conversazione, ma anche con i pochi vocaboli di inglese che avevo imparato a fatica, frequentando Londra. Sopratutto mi colpiva il suo grande senso dell’humour, grossa prerogativa presente anche in Roger Turner, suo compagno di avventure musicali per lunghi periodi della sua vita.
In casa sua suonavamo spesso e talvolta mi proponeva anche di eseguire lo standard Saint Thomas, di cui aveva lo spartito che era diligentemente appoggiato su di un vecchio leggio.
Ogni mattina si recava a lavorare molto presto in una fabbrica dove venivano costruiti gli involucri delle audio-cassette.
La domenica talvolta si esercitava alla chitarra, improvvisando seduto su di una sedia nel piccolo cortile del retro della sua casa, proprio davanti a un cumulo di grossi sacchi di cellophane neri che, come mi aveva detto, contenevano della spazzatura. Fatto questo che mi aveva colpito particolarmente ed entusiasmato.
Aveva un piccolo cane, che era anche della sua compagna di quel periodo.
A tal proposito aveva pregato me e il mio amico Santino De Stefano, suo ospite per qualche giorno, nel caso la mattina avessero suonato alla porta in sua assenza, di aprire stando bene attenti al cane, perché sicuramente sarebbe scappato via.
Naturalmente una sua vicina di casa, una donna corpulenta e di colore, aveva suonato una mattina chiedendo se c’era John, dal momento che gli doveva parlare. Il cane approfittando della situazione, vista la porta aperta, era fuggito in maniera fulminea.
Io e il mio amico lo avevamo seguito per chilometri e chilometri in mezzo alla città e senza però riuscire a prenderlo per riportarlo a casa.
La sera lo avevamo comunicato disperati al suo padrone che, dopo quella notizia, ci era apparso affranto dal dolore e arrabbiato. Fortunatamente il cane, avendo percorso quasi tutta la città, era andato nella casa del suo vecchio proprietario che il giorno dopo aveva telefonato tempestivamente per avvertirci. Un episodio che si è concluso quindi a lieto fine.
I rapporti tra la città di Pisa e John Russell sono stati assai frequenti.
Nel 1981 era stato invitato a suonare per una edizione della rassegna di Pisa, organizzata dal CRIM (Centro per la Ricerca sull’Improvvisazione Musicale) di cui sono stato uno dei membri fondatori. Per quell’edizione ci aveva proposto il progetto inedito di un trio formato da lui stesso alla chitarra, insieme a Roger Turner e Toshinori Kondō, formazione questa, di cui è uscito l’album in vinile “Art Less Sky” contenente delle registrazioni dal vivo effettuate in quel periodo.
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