Dopo il primo splendido album del 2010, “Now That It`s The Opposite”, basato interamente sulle composizioni di Moondog, gli Hobocombo tornano, anche se soltanto per cinque degli undici pezzi qui contenuti, sulle tracce del musicista newyorkese, come suggerisce l`esplicito titolo del nuovo albo, “The Magnetic Sound Of Hobocombo Presents Moondog Mask”.
Vi è una caratteristica nella musica degli Hobocombo che me li fa pensare di una categoria superiore: la capacità di rivestire i brani, sia in studio che dal vivo, di un incredibile groove sempre in bilico tra sognante psichedelia e stravagante eleganza. Per questo motivo amo incondizionatamente il loro lavoro, nonostante la mia passione per la musica di Moondog sia tutt`altro che intensa. Francesca Baccolini, Andrea Belfi e Rocco Marchi buttano ancora una volta il cuore al di là dell`ostacolo, andando decisamente oltre il semplice omaggio al vichingo e modellando la materia al punto che i pezzi firmati Moondog si mischiano con quelli autografi in una soluzione di continuità talmente compatta e omogenea che pare tutta farina del loro sacco.
Scorrendo tra i titoli delle canzoni, osservando la copertina, ascoltando ogni singolo frammento di “The Magnetic Sound Of...”, ci troviamo proiettati in un viaggio metaforico verso altri mondi, verso un immaginario esotico e fantastico, verso universi lontani che la loro musica ci porta davanti ai nostri occhi.
Ci sento dentro l`innocenza dei primi esperimenti elettronici in ambito pop, l`ironia dei suoni della incredible strange music, la genialità dei grandi compositori italiani di colonne sonore, la classe di Robert Wyatt che si materializza nella bella cover di East Timor, ma soprattutto la forte personalità di questo trio che dirige il tutto in maniera impeccabile.
Il viaggio inizia con Theme And Variations, le coordinate spazio-temporali sono Maracalagonis 1967, Manhattan 1953, Neukolin 2012, il clima è natalizio; in Desert Boogaloo, temi squilibrati e tormente sonore vanno a confondersi con i suoni misteriosi del deserto tra America e Messico; Utsu sono i tamburi africani in mano a bambini curiosi; Canon#6 e Canon#18, yin e yang; in Baltic Dance, l`immaginaria danza di un popolo nordico incrocia i Pink Floyd watersiani; Response è un improbabile kraut-blues da salotto; The Old Serge And The Flutes, “dialogo impossibile, eppure così timbricamente coerente” tra uno zufolo e un sintetizzatore, è un breve frammento che introduce To A Sea Horse, brano scattante e saettante tra eruzioni western, erezioni flamenco e improvvisazioni psichedeliche; Five Reasons, il brano più strutturato e ambizioso del disco, in cui energia ed eccentricità vanno di pari passo, riporta l`ascoltatore alla base.
Un disco (e un gruppo) che fa sognare, che accarezza e stordisce, e ci lascia un po` confusi come quando, da bambini, fantasticando sul futuro o guardando quei vecchi film di fantascienza, ingenui e un po` bizzarri, cercavamo di immaginare come sarebbe stato il mondo nel 21° secolo.
Veramente magnetico.
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