Salvatore Borrelli, alias (etre) aka Harps of Fuchsia Kalmia è sicuramente un tipo piuttosto polemico e puntiglioso... quale arena migliore per fare qualche piccola polemica, quindi, se non la recensione di un suo CD.
S`è soliti (io per primo) chiamare queste musiche folk-qualcosa, ma fino a quando la prossima rivoluzione copernicana non cambierà totalmente il nostro linguaggio e il nostro vocabolario la parola folk ha un significato ben preciso: [Di persona, oggetto, fenomeno che esprime l`anima più autenticamente popolare di una cultura, e spec. La sua componente di protesta contro le ingiustizie sociali o le convenzioni: cantante f. Musica f., genere nato nei paesi anglosassoni, e rapidamente diffusosi, che riprende e sviluppa attualizzandoli i temi tradizionali della protesta contadina e popolare in genere.]. Può essere considerato come folk un disco realizzato nel chiuso di una stanza e diffuso nella quantità di 75 copie? Ad ognuno di voi la sua risposta. Secondo me dell`essenza folk manca proprio quello che è il retroterra sociale e, volendo essere pignoli, il folk dei nostri anni si dirige in tutt`altre direzioni.
Secondo me le radici reali (quelle cioè che stanno nell`attitudine del musicista e non nei canovacci utilizzati) di dischi come questo vanno cercate in quello che a suo tempo venne definito come isolazionismo, da una parte, e nell`opra di un maestro come John Fahey (che non era tanto folk quanto uno sperimentatore sul corpo del folk), dall`altra. E dico tutto questo in termini tutt`altro che negativi.
Ma vedo in tutto ciò anche una certa ombra di o`rourkismo, cioè la tendenza a fare esclusivamente della copisteria, e questo che all`autore apparirà come un complimento è visto dal sottoscritto come un elemento niente affatto positivo, se non addirittura una fra le cose più infime successe alla musica negli ultimi 10 anni (nota: ma l`infido O`Rourke non appariva nelle prime raccolte dedicate all`isolazionismo e non è stato fra i primi a riportare all`ordine del giorno il nome di John Fahey?).
E` comunque triste stare a spulciare sul fatto che un disco sia folk o meno, pop o meno, sperimentale o meno, e quindi vale la pena di soffermarsi sulla constatazione che “The angular acceleration of light in the unsound mind of my uncle dead in Michigan” è soltanto, nulla di più e nulla di meno, un disco di uno degli alias utilizzati da Salvatore Borrelli. E, fra quelli che ho avuto il piacere di ascoltare, è il migliore. Cosa c`è di diverso rispetto al precedente “Burning With Your Old Joy In The Terminal Sun” (che avevo comunque elogiato su queste stesse colonne)? All`apparenza nulla è cambiato. In realtà ci sono tutta una serie di piccoli particolari rivelatori di variazioni tanto `inconsistenti` all`apparenza quanto `fondamentali` nella sostanza, variazioni che danno un buon contributo nel sabotare quella che recensendo il disco precedente avevo definito come «carenza di dinamiche». Particolari che vado ad individuare in una maggiore essenzialità dei brani (10 in circa 52 minuti contro i 5 in 47 minuti dell`altro disco), in una distribuzione più indovinata degli strumenti utilizzati, nell`uso della voce in termini più `classici` (qui ci sono delle vere e proprie canzoni) e nell`uso, se pure limitato, di un elemento esterno qual è il sax di Valerio Cosi. Per un risultato che appare infine come un figlioccio ibrido dell`improbabile copula fra Incredible String Band e Beck. Dei primi la forma libera delle strutture e la dilatazione onirica delle atmosfere. Del secondo una certa `stonatura` di stampo narcolettico. Per me, e mi ripeto, fra quelli che ho ascoltato questo è il miglior disco in assoluto del Borrelli. Fatevi sotto.
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