Mi perdoni il caro Glenn Johnson se anch`io mi uniformerò a quanti prima di me non hanno saputo far molto di meglio che sottolineare la natura fortemente legata agli anni `80 di questo disco. Certo non aiuta a far finta di niente il fatto che l`apertura è affidata alla voce di Brendan Perry, storico alfiere della new wave con i suoi Dead Can Dance. Assieme a lui anche il compagno Peter Ulrich (mancava Lisa Gerrard ed era uno split), che connota ancor di più come eighties l`apertura anche di The Blue Hour, che - per carità - è un bel brano, ma pare davvero preso dal primo disco dei compari anglo-australiani. Non c`è che dire: i brani in cui i vecchi collaborano con i più giovani (si fa per dire) sono anche i migliori del disco, che troppo spesso si perde in altre rimembranze del tempo che fu con i tastieroni onnipresenti di Angele David-Guillou. Avremmo di certo preferito che al posto del synth ci facesse sentire la sua bella voce, relegata invece a rarissimi cori. Sempre più presente invece quella di Johnson, che con la sua poca espressività stufa abbastanza rapidamente. Piacciono invece molto le ritmiche orientali (anche quelle, volendo, rimandabili ai DCD) che campeggiano in March of the Atheist, dal trito testo anti cattolico (sono un fan dei Godflesh, non è una questione religiosa, non temete).
Per quella che è la mia opinione, i Piano Magic purtroppo danno il meglio nelle prove soliste dei propri membri, dove i lavori di Textile Ranch sono sempre splendidi e quelli di Klima altrettanto validi. Tutti assieme, forse anche per assecondare il loro pubblico più rockettaro, deludono. Continuerò a stimarli, ma ci vuole qualcosa di più adesso.
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