Gli And Also the Trees fanno parte di quel novero poco fortunato di gruppi difficilmente ascrivibili ad uno specifico genere musicale o forse, ancora peggio, etichettati in quello sbagliato. Partiti sotto l`ala protettrice di Lol Tolhurst dei Cure (forse una referenza poco rassicurante, visti gli eccessi alcolici del paffuto batterista cotonato), sono rimasti controvoglia invischiati nella schiera dei darkettoni, e senza una vera ragione di carattere musicale nè estetico. Vero è che il mood è quello gotico, e che le tristi storie raccontate nelle loro canzoni han più facilmente conquistato il cuore di ragazzine nerovestite e fan di Dance Society e Bauhaus, ma a differenza di questi ultimi sia l`immaginario che il look si son sempre discostati da certe nefandezze, aderendo più sensatamente alla tradizione folk inglese, alla quale i quattro sono indelebilmente legati. Lo conferma “When the Rains Come”, ritorno a due anni di distanza dal loro ultimo lavoro, il non molto fortunato “The Rag and Bone Man”, che a sua volta li riportava nei territori cupi dai quali s`erano del tutto allontanati con le pessime prove da “Klaxon” in poi (mosci tentativi di rockabilly aggiornato).
I quattro del Worchestershire oggi riprendono dunque quattordici pezzi della loro lunga carriera e li denudano fino all`osso, proponendoli in versione acustica e profondamente rivista. L`effetto che ne sortisce sui fan di vecchia data cui il sottoscritto, si sarà capito, nostalgicamente si ascrive, è quello che si potrebbe avere nel rincontrare un vecchio amico e trovarlo profondamente cambiato, forse anche invecchiato, ma in fondo il solito vecchio caro compagnone di sempre. Magari anche più saggio e maturo. Quindi ci vuole più di un ascolto per abituarsi anche a classiconi come Virus Meadow o Jacob Fleet privati della verve new wave di allora e - soprattutto - della produzione pesante di Mark Tibenham, che caricò gli album della fase post-Tolhurst di arrangiamenti orchestrali a base di tastiere. In fondo erano quelle le caratteristiche che all`ascolto odierno rispediscono album come “Green is the Sea” negli anni `80, ma resta il fatto che quella degli AATT era una musica che faceva degli arrangiamenti densi una delle sue note di forza. Ma non c`è modo migliore di invecchiare che quello di capire a cosa è meglio rinunciare, e quindi oggi va più che bene che gli orpelli siano scomparsi, sebbene forse un violino avrebbe potuto sopperire alla mancanza di quelle onnipresenti note distese e della pesante effettistica usata sulla chitarra da Justin Jones.
Ad ogni modo non è difficile mettere da parte i difetti del disco quando si ha l`opportunità di vedere il gruppo live, nel nostro caso al Cox 18 di Milano, dove si sono presentati con la formazione del suddetto disco: il bassista Steven Burrows, ora riciclatosi contrabbassista, accanto ai fratelli Jones (tutti del nucleo originario) con in più la brava polistrumentista Emer Brizzolara, che con melodica, dulcimer e occasionale chitarra contribuisce a compensare alcuni dei vuoti di cui sopra. L`assenza della batteria resta evidente, sebbene contribuisca a preservare una certa leggerezza nei brani, soavemente sorretti dalle note acute della chitarra e quelle infrasoniche del contrabbasso. In mezzo, immensa, costante, limitata nel registro ma sempre estremamente espressiva, la voce di Simon Huv Jones, istrionico nelle sue mosse da attore Shakesperiano e sorretto da una presenza scenica non indifferente (parecchie le ragazze presenti sedotte dal suo fascino). Così come il disco, lo show scorre liscio e costante come un racconto vittoriano, senza grossi sbalzi, e con i momenti più eccitanti legati a pezzi relativamente recenti come Fighting in A Lighthouse ma anche a vecchie glorie come Street Organ, facendo lentamente crescere una malinconia quasi solida, sincera, penetrante e impeccabile come i vestiti da lord inglesi che i nostri indossano.
Ancora una volta, difficile capire a chi possano piacere dei personaggi come loro, anche se la musica non credo spiacerebbe a fan di Beirut o Sparklehorse. A risultare ostici sono forse le loro storie “rurali” (così le definisco loro stessi), racconti di miserie di paesini sperduti nella piovosa campagna inglese, o gli scenari da fiaba. Non so dare una risposta. So solo che storie così, raccontate in una chiave di moderno acustico splendore, ci hanno conquistati.
PS: Il grande Cox 18 si conferma uno dei locali più interessanti di Milano e dintorni, alla faccia di chi aveva tentato di farlo chiudere qualche mese fa.
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