Questa recensione casca a fagiolo e va ad incunearsi fra un articolo sulla sperimentazione vocale che abbiamo da poco pubblicato ed uno su alcuni lavori per strumenti a percussione che pubblicheremo a breve. “Voices” racchiude, per l`appunto, una serie di duetti che vedono protagonista il batterista svizzero Fredy Studer da una parte e tre voci femminili dall`altra. E si tratta di un`opera ben calibrata e istruttiva, perchè le tre voci vanno a coprire un ampio spettro generazionale e culturale, Stati Uniti, Turchia e Giappone sono i loro paesi i provenienza, mentre il batterista sa mostrarsi abbastanza versatile da potersi adeguare anche a stilemi profondamente diversi. La realtà che più emerge riguarda il linguaggio, e precisamente il modo nel quale modella cavità orali e accessori, allo stesso modo in cui il vento modella una caverna o l`acqua il letto d`un fiume. Questo è ciò che diversifica di più le tre voci, al di là del modello espressivo prescelto che appare più orientato verso il grottesco nella Newton verso derive misticheggianti in Saadet Türköz e verso forme d`isterismo in Ami Yoshida.
Il disco inizia con un risuonare sospeso di cimbali. Niente di ché, ma si tratta di una breve introduzione alle portate principali tracciata dal solo Studer.
Quattro sono gli sketch con Lauren Newton: Die Dinge, Axis, Madcap e Wishful Thinking. Il primo approccio è una specie di nenia modulata su un sottofondo cupo e rarefatto di tamburi, ma già con Axis è possibile ascoltare quella giravolta scat che, nella fattispecie, sembra eseguire un duello drummico con la batteria di Studer. Segue il linguaggio inarticolato di Madcap, con la Newton calata veramente nei suoi panni, e si conclude sulla stessa lunghezza d`onda, seppur in una logica più rarefatta e con la voce più indirizzata al sospiro.
Altrettanti titoli vedono impegnata Saadet Türköz: Oy, Bar, Can e Love Song. Hanno caratteristiche più antiche le modulazioni della sua voce, che passa da atmosfere liturgiche a sospiri coitali a perfide intonazioni da strega. Studer risponde con suoni lunghi, creati con archetti e risonanze, o con un drumming più convulso, tranne nella splendida Bar, uno dei momenti più affascinanti dell`intero CD, dove sottolinea la nenia delicata della Türköz con fluidi suoni d`acqua.
Sumi, Kaiten e Nakae è quanto resta per la voce di Ami Yoshida. I suoni che produce la giapponese volgono logicamente ed in modo più consistente verso il disarticolato, ne è esempio la breve Sumi dove sia la voce sia i cimbali archettati fanno pensare ad un duetto di flauti elettronicizzati. Ma è negli altri due brani che il linguaggio primitivo e inarticolato di Ami Yoshida esprime tutta la sua malata disubbidienza alle regole del buon canto, anche se ho l`impressione che, almeno in Kaiten, Studer non riesca a rispondere per le rime.
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