Non di rado mi trovo in imbarazzo a trattare dei dischi che mi piacciono oltre misura. Ho sempre il timore di incappare in aggettivi troppo roboanti, e mi chiedo se la grande qualità che vedo in un lavoro è magari eccessivamente guidata dall`emotività che esso genera in me, anche a prescindere dal suo valore intrinseco.
Poi mi rispondo, e mi dico che come in tanti altri casi mi faccio troppi problemi. Quindi posso ricoprire di lodi questo splendido disco di Ben Chawin, artista giovane con alle spalle una già bellissima cassetta su My Dance The Skull (procuratevela, ne vale la pena) e poco altro. Avvolgente, profondo, ben registrato, ottimamente mixato, fedele a dei bei modelli di riferimento ma non derivativo, splendidamente equilibrato tra melodia e rumore, tra tensione e dolcezza.
E quando parlo di modelli di riferimento l`orecchio porta senza dubbio ai Labradford nelle loro varie fasi (vedi la chitarra e la tastiera della quarta parte, in particolare, ad un passo dal capolavoro “E Luxo So”), ma anche i field recordings di scuola Home Normal ed alcuni rumorismi e spessi droni che potrebbero riportare più indietro a O Yuki Coniugate o simili.
Conta poco a questo punto il concept invero deprimente e poetico sull`annegamento, in effetti ben rappresentato nelle sue potenziali, immaginifiche varie fasi, dall`angoscia alla paura, dallo smarrimento al senso di piacevole abbandono, il tutto attraverso le spire in quello che potrebbe essere un equivalente in musica del racconto “Una discesa nel Maelström”, tra i pochi a lieto fine del grande Edgar Allan Poe. Il riferimento nella press sheet è invece “La strada” di McCarthy, che ad oggi pare esser testo hype per musicisti (vedi anche i nostri Airportman), ma lo vedo però più lontano.
Bellissimo pure il digipack con le sue grafiche opache e minimali, a confezionare un bel colpo messo a segno dalla pur giovane Hibernate che va ad inserirsi di diritto nelle label più promettenti di quest`indefinibile musica sperimentale di confine che affonda buona parte delle sue radici nei lavori di Taylor Dupree e Steve Roden.
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