Si vociferava da tempo una (cosciente) dipartita dalle scene di Umberto Giardini sotto gli abiti di Moltheni. Rimessi al chiodo voce e chitarra, si ritorna a sedere dietro la batteria, suo strumento elettivo sin dalle origini, facendosi affiancare da due vecchie conoscenze come Floriano Bocchino e Marco Marzo Maracas. Nascono così i Pineda, creatura generata secondo le leggi della musica strumentale tout cour, suggestionata da lontani correnti della psichedelia e del kraut le quali, in un lungo viaggio nel tempo, giungono nei (fine) Novanta per accarezzare le sospensioni post rocker di una città del vento governata dai Tortoise (la chiazza moog-blues su Domino, quella lounge-math che riveste Touch Me, la lacca future-fusion in Human Behavour, e la spugnosa moon-ambient alla genesi di If Good Exist...). Di mezzo, la pignoleria strumentale e quella sfarzosa ricchezza di arrangiamenti in grado di fare l`occhiolino ai magmatici versanti del prog (i persistenti cambi di visione con la solenne Twelve Universes), irritata a tratti da robuste iniezioni di arcaico hard rock Settanta (la rocciosa evoluzione nella mantrica Give Me Some Well-Dressed Reason). Niente di nuovo all`orizzonte, anzi nel complesso si percepisce una compattezza di suoni fermamente ancorati ad un`estetica vintage; in tal caso, infatti, non stupisce affatto la scelta di licenziare il lavoro preventivamente su vinile, aspettando la fine dei bollori estivi per rinascere pure su cd (l`uscita è programmata per Settembre).
Derivativo ma di sicuro suonato con cuore e un`accuratezza tecnica più che invidiabile.
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