Di Marina Hardy, meritevole multistrumentista, si sa davvero poco, se non che è originaria di Omaha (Nebraska) e che ha stretto sotto contesti diversi dei contatti di lavoro con la cricca di Brian Day. Ed è proprio dalla sub-label di quest`ultimo che spunta “Pink Violin”, folle e geniale collezione di lavori solisti forgiata nel biennio `06-`07. La Hardy, una cosa è certa, non ha (o meglio non vuole avere) le idee chiare. Dalla partenza di Mkay, sino ai palesi scorci masadiani nella conclusiva Dollering, ci frulla di tutto: spargimenti letali di canto e synth, impensati ruzzoloni nel groove balcanico, vangate e vagonate di noise, chitarre surf-metal distratte da leit motiv spagnoleggianti, marcette easy listening, assalti frontali di `volgare` rumore fatto in casa, digressioni ambient in cui l`ego esoterico è vivido al punto da rievocare dimenticate e arenose fantasie di Jorge Reyes. Razionalmente, è un delitto pensare che non tutti, ma buona parte di questi capitoli siano vivi e vegeti per opera della sola Hardy, ma la realtà parla chiaro: Marina suona tutti gli strumenti, uno per volta, con la pazienza di un monaco benedettino, dopodiché, nella più classica delle fasi di editing finale, ricuce i materiali come Pollock faceva con i propri colori, mescolandoli istintivamente senza-raziocinio sulla tela bianca. Forse è vero, determinati frangenti (le altezzose manie klezmer-country di Cowgypsy, l`heavy metal iper-tecnico di Zoom, la scontata luce-jazz in Yip Yip ) portano con sè il sapore dell`ingenuità , ma si fanno tranquillamente perdonare perché, nè più nè meno, figli dell`inesperienza. Il tempo, sono convinto, farà il resto. Per ora accontentiamoci, compiacendoci della scoperta di una talent scout capace di mescolare assurdità alla Mr Bungle e giocose gentilezze alla Joanna Newsom (l`amorevole giro di arpa e chitarra in Red Teeth), Dead C e David Toop (la giungla etno-sintetica di Apple Sauce Pudding), ritmi urbanoidi col Miles Davis blu-elettrico (la metastasi techno Funk), pop sghembo e latinerie Calexiane (a tutto andare con Spanish), Naked City e lounge music (le calde scie di hammond e un`elettrica friselliana sul caldo manto di Yowsa), drone-music rustica e persino Johann Sebastian Bach (Ceisel, solo di violino modernista), Kurt Weil ed esistenzialismo mittleuropeo (la rivisitazione di It Ain't Necessarily So firmata George Gershwin).
A conti fatti, un vero e proprio atlante geo-sonoro redatto fra le anguste pareti di una semplice cameretta tuttofare (location e studio di registrazione). Quando ci sono le potenzialità , il resto non conta.
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