In questo periodo mi capita spesso di versare qualche lacrima, insomma, invecchio e sto diventando come quei cani avvizziti che latrano quando gli manca il padrone e che finiscono per elemosinare carezze al primo che passa. Non dovrei stupirmene, d`altra parte la primavera gioca brutti scherzi, la luce è strana ed un po' il profumo delle gemme (sì “mi piacciono i fiori i fiori ma non voglio fare il fiorista”, con buona pace del test del militare...), un po' gli ormoni (ed un po' i vestiti che si accorciano) manderebbero a terra anche “Iron Mike”. Parlavamo di bello quindi, a volte il via per commuoversi arriva di fronte a cose che vanno a far vibrare certe corde o che risultano così intense da far "chiagne" così, all`improvviso. Di recente mi è successo ascoltando questo cofanetto di standard eseguiti da Braxton, è buffo perchè in fin dei conti pur amando molto alcuni dischi e musicisti jazz non sono un cultore del genere e tanto meno uno che si sbrodola di fronte ai classici. Per quanto impegnativo (beh come immaginerete sei cd non sono proprio una passeggiata) “Standards (Brussels) 2006” è convincente sotto diversi punti di vista. Braxton e la sua formazione tutta italiana composta da Cristiano Calcagnile alla batteria, Antonio Borghini al contrabbasso e Alessandro Giachero al piano, riescono a rielaborare in modo molto morbido alcuni classici senza per questo renderli freddi (sto pensando a “The Big Gundown” di Zorn che per quanto geniale ci riconsegna Morricone più ghiacciato di un cadavere dei set di Cinecittà ). Si tratta di due sessioni registrate live in Belgio e per la precisione in quel di Brussels, la qualità della registrazione è ottima tanto che ho dovuto aspettare la fine del primo pezzo per capire che non sin trattava di una sessione in studio. Scelta volontaria o no anche questo è perfettamente in linea con un modo intelligente di riappropriarsi di uno standard: live, come era il jazz pre-vinilico, come lo è stato e lo è molto di quello che macina dal vivo ed in studio, tutto rodato come una macchina ben oliata ed appena messa a punto, a quanto pare anche il sistema di rielaborazione degli standard utilizzato da parte di Braxton meriterebbe un capitolo a sè, ma non sono certo la persona più indicata per poterne parlare. Stiamo parlando di Anthony Braxton, quello che a volte è stato ostracizzato dai suoi stessi "fratelli" per l'eccessiva cerebralità , per il fatto di essere stato più freddo di qualunque bianco e per aver incarnato un vero e proprio punto di rottura rispetto alla tradizione del genere, l'uomo che per un periodo si è mantenuto giocando a scacchi nel parco, la persona che alla veneranda età di 60, 70 anni si è preso la briga di duettare con terroristi (o terroni?) del rumore come i Wolf Eyes, il signore che ha lasciato come imperituro patrimonio all'umanità una serie di dissonanze a confronto delle quali Ornette Coleman è un moderato centrista in stile veltroniano. Ed invece qui avrete modo di sentirlo morbido, suadente, caldo, vagamente malinconico come nello spirito di molte di queste tracce ed alcuni sono standards così celebri che li conosco persino io che sono ignorante come una scarpa: si và da Darn that dream di Van Hausen ad Out to lunch di Eric Dolphy, da Ruby my dear di Monk ad All of you di Cole Porter. Giusto per ribadire la peculiarità della reinterpretazione messa in opera dal “grande vecchio”, potrei dire che ci sia un suo intervento quasi puntillistico, un uso del tutto personale del tempo e/o della velocità esecutiva, uno sviluppo particolare di questo o quel fraseggio del pezzo. Come buona tradizione braxtoniana (non che sia un suo marchio di fabbrica, ma è una cosa che ritorna), la dinamica per quando morbida e suadente è pur sempre viva anche perchè in caso contrario non credo che l`americano si sarebbe rivolto ad un musicista stiloso, fine ma decisamente energico e vitale come Calcagnile (che qui si incrocia meravigliosamente con Borghini e Giachero). A completare un cofanetto a dir poco ricco e di qualità extra-lusso, un booklet splendido in cui oltre alle foto ed ai profili dei singoli musicisti compaiono alcuni scritti di Erika Dagnino che immagino abbiano fatto vibrare un`onanista cerebrale come Braxton ed un`introduzione globale al lavoro scritta da Gianni Mimmo stesso. Quest`ultimo oltre a far confluire una serie di ricordi giovanili legati al personaggio mette assieme tutti i tasselli del lavoro, dalla musica alla grafica, dalle foto agli scritti della Dagnino. Un modo splendido di riconciliarsi con il passato: prenderlo, spolverarlo, reinterpretarlo e quindi farlo vivere e non “ri-vivere” assecondando nostalgie reazionarie che spesso hanno imbrigliato il jazz (e non solo quello) ad una traduzione più nociva e più sterile di “Benigni legge Dante”. Non tanto un`operazione commerciale, quanto più un modo intelligente per ricordarsi da dove si viene pur prendendo atto che il XX Secolo è finito e che, per quanto faticoso, bisognerebbe iniziare a vivere nel nuovo millennio e questo cofanetto lo fa, quindi “back to basics” ma non “back to start”
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