Cominciamo questo piccolo 'lucernario della brevità ' col secondo Sinnateggen ed i suoi scarsi 30 minuti che vanno avanti senza troppe sorprese ma che male non fanno. Una degna prova che potrebbe essere l`effetto di una persona rimasta chiusa in un armadio per una decina d`anni insieme al suo immaginario prima metà anni novanta e messo fuori adesso: 30 minuti che dicono tanto su ciò che è accaduto nell`elettronica più leggera ed a tratti spicciola, ma che non hanno alcun potere seduttivo per un orecchio attento a questi suoni. L`ennesima cazzata, insomma (comprese quelle porcherie che consistono nel prendere un field recordings e farlo andare in loop sempre alla stessa maniera, aggiungendoci della melodia attorno). La confezione è stupenda, formato 7” di cartone, con dentro il disco meno stupendo, insomma.
Di bel altro calibro ed altra stazza, il disco di Dead Wood, anche proprietario della Dirty Demos, con all`attivo diversi lavori quasi tutti introvabili. Micromaterie più o meno flessibili attraversano lo spazio sonoro costellato da movimenti grigi e ripetuti, come fascicolazioni nervose, dense di industrialismi e di glitches affastellati su schermaglie assai morbose. Chiaramente, il brivido dell`innovazione, se funziona l`equazione tecnologia uguale materia, è certamente meno fervido, e per certi versi latita anche da queste parti, ma in più di un`occasione ho rimarcato che il 'glitch' è davvero una forma perversa di comunicazione, una comunicazione quasi non verbale e come tutti i linguaggi 'minori', il suo limite supremo è dato dalla disfunzione che produce o viene prodotta nei confronti di un diverso modo di percepire o introiettare il senso stesso in ciò che accade. In sostanza, queste forme di 'glitches' dovrebbero riguardare quasi un genere a parte, appellarsi ad un linguaggio 'a parte' ed essere confrontate in consonanza a questa lingua che scorre più nei meandri di un HD conformazionale che nei cervelli o nelle ossa di chi la (s)produce. Come potrebbe funzionare se funzionasse? Cosa accade dentro queste macchine binarie che si sprofondano e si accarezzano senza sangue, senza fisicità ? Dead Wood ci fornisce una sorta di micromeccanica della fruizione, ovvero una specie di metastasi interconnettiva, in cui in maniera non troppo opposta a Freiband, una serie di dati, originariamente 'di linguaggio sonoro' si affrontano su di un`arena non più 'sonora' e fanno una specie di lotta sotterranea per emergere in forme ancora più sottocaricate di parola, e di perché. E` una materia senz`altro angosciante, e funziona bene nonostante i tempi che scorrono (o corrono, come preferite voi).
Guillaume Gargaud è un musicista francese, e già a partire dal suo sito, sono riscontrabili forte appartenenze alla musica di Alva Noto e consorti. Si tratta di un suono che sta in maniera equamente distante da certa ambient senza troppi squilibri, il glitch algoritmo-numerico della Raster, e qualche timidissima vicinanza a certa Drone Music prodotta dalla risonanze delle corde. Anche in questo caso, il limite tra 'scadenza' temporale (questo materiale scade oppure no? Ha una data di 'chiusura'?) e 'individuazione' (panoptica) è piuttosto debole, e forse, il fatto che dischi come questo finiscano in una manciata di copie su cd-r (in tal caso 150), già prescrive una datazione per un suono che certamente non può dichiararsi decisivo. Tuttavia, il materiale presenta anche momenti di abbandono, talvolta su derivazioni kraute (com`è il caso del terzo pezzo), ma nell`insieme, l`accostamento cadenzioso-percussivo di alcune tracce nonchè un certo gusto sintattico, non fanno emergere questi suoni al di sopra di una certa (piatta) media.
Di ben superiore attenzione è il materiale rovesciato dentro il primo lavoro di Venta Protesix, laptoppiano salernitano, che sta al nome di Italo Belladonna. Di Italo, avevo seguito già dai suoi primi timidi tentativi, il percorso che l`ha portato a questo disco, finalmente nelle mie mani. Cosa dire? Più che dalle parti di Fennesz, stiamo dalle parti di una Tokyo bombardata dietro dosi massive di Anime, di isolazionismo interiore, di forti ascendenze e connotazioni iperspaziali. E` un gesto algoritmico che pazienta di sorgenti ed iconografie da macchina solida, in un continuo gioco dada, a volte scoordinato ed autoreferenziale, altrimenti in sapienti (e poetiche) dosi di spazialismi 'epigolanti' ed 'epigoni' che si crashano e vengono ricollocati al contrario, ora solo come dei tessuti-indumenti, talaltra dal di fuori ottenendo microscaglie prolungabili attorno a patchwork imbottite di ferraglia tritabyte. Potrebbe e può, questo gioco, richiamare in causa quel particolare genere da laptop che va sotto il nome di 'post-digital' ad indicare il fatto che, a farne battente non sono solo forbici e matite, ma direzioni dimensionali pendenti, frutto di un neo-nomadismo sonoro che fa da archetipo a tutte le striature e le latitudini della classica musica da laptop. E per giunta questi materiali si pregiano di una decisiva dose di caos (caos procurato dall`assenza d`intervalli) e da una concezione piuttosto macromatica dei segnali che s`innestano tra loro già nel primo venir-fuori, senza alcun riguardo per la sosta, la scelta, e con forti dosi di inadattabilità . E` certo difficile, ma questo già si sapeva, al giorno d`oggi, fare di questi suoni la propria 'matrice', ovvero presentarsi con una mega-individuazione tale da diventarne 'proprietario', più che di copyright della canzone andrebbero indagati il copryrigh del genere, del software, e fare il possibile affinchè ci sia sempre meno software e più sangue libero, ma non credo che questo sia stato il problema originario di Italo, che se non altro, in questo primo lavoro, ha fatto esplodere, ed ha riversato già tutta la sua ricerca antecedente in gioco. Lo attendiamo alla prossima prova, sperando che non disdegni la natura materica dei suoi lavori, e che lavori più sul toglimento che sulle aggiunte.
Concludiamo questa carrellata, col disco che ho più amato del lotto, trattasi di un lavoro di Rainer Lericolais, chiamato “Copie”, che sta qui dentro sia per la consonanza al laptop-oriented, ma che ci starebbe meno bene, trattandosi di un disco del 2005 (è solo per questa ragione che non è disco 'top'). Il suo avvicinamento più tangibile per quella che ne è la sua parte concretistica-puntillosa è certamente da ritrovare nei materiali di Lionel Marchetti, mentre tutto ciò che lo compone in termini di struttura sonora, sarebbe ricercabile in un Andrew Liles, meno di maniera e più aperto a certi suoni di frontiera. La 'copia' non è ciò che dell`origine 'salta' (e di salti qui ce ne sono, eccome) ma per copia qui si allude evidentemente alla fetta di 'mondità ' che qui dentro si ri-copia per slabbrarsi, irradiarsi, ondeggiare su stratosfere inquiete, e distintamente minerarie, tra opposizioni che vanno da suoli neoclassici a spazi paleontolitici del suono (non è un dj che si diverte ad accostare, quanto una mitragliatrice periferica che spara colpi alla schiena per creare-differenza, per disorientare in micro convalescenze rizomatiche, in tribù sonore, con geometrie altalenanti tra neoclassico e Otomo Yoshihide). Si può parlare di amore per la stasi, di amore per passaggi interrotti, di un amore che ha un suono più spaventoso di qualunque suono stridente che si lasci stare e che lasci andare la memoria. “Copie” brucia come un fendente di “Tokyo Fist”.
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