La cellula romana Lendormin, continua la sua ostica corsa.
Questo nuovo lavoro (da considerarsi parte di un doppio album lacerato, l`altro è, “Live”), sposta di un passo (più d`uno...) in avanti, il territorio infetto/incerto, calpestato dai Lendormin.
Dalla corrosione del precedente “Night Dawn Day”, si passa all`emulsione/scontro rovinoso, di questo “Quartet”, che usa l`elemento improvvisativo, come grimaldello arrugginito, per forzare la sfera temporale, e generare, un collasso stilistico, che appare all`ascolto, come un continuo esercizio, di tensione e rilascio.
Crash nel vero senso della parola, dove il free dei settanta si accartoccia sulla fiamma del noise (più concetto che pratica...), e dove l`estasi Faust/rileyana, s`azzoppa in uno sfregio elettroacustico (IV, stordente).
Nell`incrocio di segnali emessi/immessi, s`intersecano ed intromettono, secche scudisciate No Wave/funk e misteriosi afrori terreni (una carnalità che vien da definire; etnica. Anche in questo caso, più suggestione che pratica).
Palude infida, territori cedevoli, pauroso rimbombar di echi e strepiti, di fiati che parlan lingua di feroci carezze, ed inceppamenti ritmici; che si arrestano interdetti di fronte al caleidoscopio delle tastiere.
In I, il passo si sincronizza su impeti This Heat, in II, il collasso si palesa, free jazz, ragtime in punta di dita, Zappa; Hendrix e Dna.
In chiusura, per pochi secondi, Ayler e Robby Krieger si stringon la mano.
Ed io mi arrendo, iniziando a scorrer la collezione di antiche copertine viniliche, con in sottofondo, il traffico dell`ora di punta, amplificato a contatto.
Un pugno nello stomaco.
Un senso d`incertezza costante.
Avanti, indietro, avanti, indietro.
Sino alla caduta.
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