“Separazioni” è il titolo di un luminoso disco di Giampiero Riggio, che per quanto mi riguarda, inserirlo al top era il minimo che si poteva fare... tuttavia trattasi di un lavoro già 'intercorso', uscito in 80 straordinarie copie dalla straordinaria “Centre of the Wood”, ed ora introvabili. Credo che la musica abbia il potere di 'segnare' certi stati di grazia o certi innamoramenti, e “Separations” è sostanzialmente quello che sogniamo da un amore più o meno decisivo. Nato da un particolare incrocio tra Robot ate me, Wilfred, e qualcosina di buono che c`è ogni tanto in certa musica di Popolous, “Separations” già nel primo fondamentale brano, si veste di una nostalgia latente e drammatica, tagliente ed inflessiva, sotto la forma di ballads autunnali. La seconda traccia mette in scena un`epopea che starebbe benissimo in un disco dei Books, gli iniziali arpeggi di chitarra di (My necks) fanno contralto con la frase ripetuta, sempre sottovoce, da cui si dipanano organetti e tastiere che danzano su paesaggi viscerali, oceanici. Ciò che colpisce immensamente è la cura dei dettagli, e le grandiose risorse di Riggio per ciò che concerne la cura degli ingranaggi meccanici, gestiti perfettamente in un crescendo di lirismo e forma melodica, impreziositi da spettacolare gusto degli arrangiamenti. Si tratta di un disco che parla d`amore, non di quegli amori violenti, ma di quei sottili turbamenti dell`anima, e stupisce e non poco, che da queste parti, in Italia per intenderci, si possa fare musica con tanta consapevolezza senza risultare nè stucchevoli nè mielosi. Siamo dalle parti del capolavoro. Ed aspettiamo la prossima prova con grande speranza che sia immensa quanto questa. Da notare che il disegno di Federico Lupo all`interno del disco, è bello e prezioso quanto il disco che lo ospita e che può essere inteso come una sua continuazione figurativa.
Proseguiamo sui lidi di Centre of the Wood, con uno split, tra l`altisonante Family Battle Snake e We Wait for the Snow (ovvero Andrea Penso, anche gestore dell`etichetta romana). Le due traccie di Family Battle Snake non sono molto lontane nell`impostazione minimale e catatonica, nonchè nel gusto monocromatico e stirato di certi materiali iperminimalisi di Tony Conrad. L`unica differenza è che qui il Dio-istinto predomina e la coloritura, che talvolta diventa spessa, e talvolta paurosamente dronica, si manifesta sull`orda di un rituale macabro, a metà notte tra Silvester Anfang e certi presagi di North Sea (cosa che si sente soprattutto negli arpeggi del secondo brano). L`intenzione è quella della dissonanza ad oltranza, della ripetizione senza fuoriuscita, come si trattasse di un lungo loop alla Steve Roden, volontariamente noncurante, ma con la sua giusta dose di persistenza ed arbitrarietà compositiva. Le traccie di Andrea Penso invece, sono materiale da INLAND EMPIRE: sembrano dirottate da una di quelle stanze non comunicanti, disseminate tra spazi che si rimbalzano contro e che si riaprono come degli impasti interminabili in flashback cumulativi, materici, vivi. Bisogna ammettere che la direzionalità , la provenienza o meglio l`andare di certa folk-rituale, per intenderci quella fatta di feedback e droni bassi, ha il brutto limite di non avere 'referenzialità ', ovvero di smarrirsi in certi giochi più d`astuzia e d`effettistica, che di marcata materia umana. E` un rischio che qui non esiste: una prova su tutte è la marcia siderale di Tribute che sembra segnata da una fuga ad oltranza su territori impervi, massacrati, dove a parlare è la natura misteriosa dell`umano, del soggetto, di chi c`è dietro, più che un paio di note mantenute a lungo. Gli accostamenti, a parte la materia lynchiana, si potrebbero trovare in David Maranha, nei suoi primi dischi come Osso Exotico, in quelle lunghe marce funebri, e decadenti, e l`anima di questi pezzi che viaggiano tra materie stellari ed incandescenze termiche, in fin dei conti è ravvisabile nei lavori più datati dei Current `93: medesima solitudine, medesimo incedere.
Il 3” di Enfer Boreal prosegue la via di questo musicista francese nella dronica isolazionistica a connotazione 'forestiera'. Di che si tratta? Di una speciale vocazione a trasformare il vuoto, le onde basse, i suoni naturali in una giungla di alberi, foglie, squarci e latrati misteriosi e cinematici. Sia chiaro, si tratta di un gioco particolarmente praticato da quel fondamentale collettivo che è stato ben catturato nella Jewelled Antler Library da Porter Records, o circuiti seguiti con professionale vocazione da gente come Tim Coster o Loren Chasse; ma tuttavia è un percorso che affascina e che ha bisogno di poco, di pochi materiali, di una disposizione ben temprata per accadere e farsi. Del lotto è sicuramente il disco meno 'forte' ma non per questo non vale la pena di ascoltarlo, magari andandosi a cercare il lavoro su Ruralfaune, più variegato ed ispirato di questo.
Altro francese, ma con molte più carte da giocare, è Truth Behind the Curtain, che a quanto ne so, sta al suo esordio. Il suo disco omonimo è straordinario, quanto straordinaria è la chitarra dello scozzese Jamie Thomson che accompagna i field recordings di Truth Behind the Curtain nel quarto brano del disco, An ode to toads. Qui siamo dalle parti di un incrocio tra saudade, Lichens, alcuni lividi disorientamenti da psichedelica floydiana. La fotografia-apribile-poster che accompagna il disco di Andrea Penso “Passato confuso” spiega molto bene le ragioni che animano questo progetto, se non lo si capisse dai suoni stessi: è un bosco ripreso da lontano ma potrebbe trattarsi si una sfumatura della mente, di un`onta, o di un`ombra indelebile che fa da Gestalt al vuoto che l`accompagna dal di sotto. Come detto, implicazioni simili non sono nuove nella musica sulla scia di 'una chitarra + volatili'; non è nuova la commistione tra materia sonora naturale e chitarre vagamente raga, arpeggiate con calma e senza particolari tecnicismi, ma è senz`altro da queste parti che si dovrà guardare se si ritiene che la musica abbia un suono più potente di molte cose gridate e suonate senza sosta: è una colonna sonora per grandi viaggi mentali, un po` com`è stata la musica dei Popol Vuh per generazioni di ascoltatori. E di musica com`è questa ce n`è sempre bisogno in tempi bui come questi.
Per finire il lotto capitolino, c`è la classica ciliegina sulla torta. Se per i più il nome Rob Williams non ricorderà niente, ma è certo ancora molto forte il ricordo della sua band principale: gli Ubzub, gruppo bizzarro e malato, che in quel grande calderone fondamentale che fu la No-Wave, con due dischi altrettanto malati, facevano il verso ai Residents. Ora Rob si è messo in proprio; ha cambiato completamente scenario ma è altrettanto un outsider come lo fu il suo gruppo. Grains è infatti il suo nuovo progetto acustico, che più che stare alla New Weird America, sta a certe solitarie ballate che si mantengono in uno strano equilibrio tra Michaell Gira, Drekka e Rivulets. Grandi plettrate con dentro riverberi e sangue, voce più o meno monocorde e mascherata, alcuni strumenti elettronici da decoro che girano su due o tre note eseguite con stanchezza e fare anarchico. Sono canzoni che potrebbero non finire, perchè hanno un assetto quasi sempre disperato e livido: ogni tanto il gioco Ubzub ritorna in qualche chorus sotto la voce (come nella quarta traccia) ed in una certa lunghezza complessiva, che rappresenta in effetti il vero limite del disco. E` una musica, che per quanto 'drammatica' e forse sentita, ha meno 'spessore' e forza di quella di un tempo... ma in ogni caso bisogna ascoltarla, solo per rendersi conto di come sia passato (bene) il tempo. E` tuttavia innegabile come in più di un caso, le rigide sedimentazioni che si creavano nei generi fino a qualche decennio fa, sono completamente scomparse, ed è altrettanto nostalgico ricordarmi 10 anni fa, molto più spensierato di adesso, e riscoprire che l`amore per la musica è infinito: presenziavamo ai concerti dentro posti osceni, sotto terra, con i Lake of Dracula accanto agli Ubzub, Zeek Sheck e Flying Luttenbachers che sembravano le cose più 'out' che si potessero ascoltare, ed ora, amiamo gli spazi aperti giocando nei campi del signore.
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