Seppure non possa vantare ancora un grosso successo di pubblico, la musica per sole percussioni ha rappresentato uno dei fenomeni più innovativi e vitali degli ultimi cinquant`anni ed ha coivolto nella ricerca musicisti appartenenti a tutte le discipline, per esplodere infine in quello che possiamo considerare come un suo derivato naturale, cioè il beat elettronico. Il riferimento è alla scena musicale occidentale, naturalmente, dacchè in tradizioni come quella africana o quella orientale la musica per percussioni rappresenta da sempre un punto fermo dell`espressività artistica.
Roscoe Mitchell, sia all`interno dell`Art Ensemble Of Chicago che in altre dimensioni, è stato uno dei più coerenti sperimentatori nel settore, e la sua composizione per otto percussionisti The Maze è una delle più importanti in assoluto della musica contemporanea. In questo suo nuovo triplo CD in solitudine la musica per percussioni occupa una percentuale consistente di spazio, pur non rappresentando l`unico aspetto di un disco che, essendo stato Mitchell fra i primi ad iniziare in modo sistematico la ricerca introspettiva e solitaria sugli strumenti a fiato, è comunque importante nel suo insieme. Un suo brano per solo sax alto, Tkhke, ha preceduto anche il fondamentale “For Alto” di Anthony Braxton, e prima d`allora c`erano stati solo dei casi isolati, anche se estremamente intuitivi, di brani eseguiti soltanto su uno strumento ad ancia. “Solar Flares”, il secondo CD di questo triplo cofanetto, ripropone il Mitchell altosassofonista ed è, in definitiva, il più `lineare` fra i tre dischi. Non è brutto ma evita sorprese e avventure, opera di uno strumentista equilibrato che dispone pienamente del mezzo e lo attacca con varie tecniche, passando dal fraseggio veloce all`esposizione per suoni lunghi. Più sorprendente è il primo dei tre CD, “Tech Ritter And The Megabytes”, con il musicista che gioca di fino, usando anche registrazioni multitraccia, nell`esplorazione di vari dinosauri reperiti chissà dove, magari in qualche ospizio per strumenti ad ancia. La leggendaria impresa di Crazy Horse, in The Little Big Horn 2 , è il pretesto per uno scontro virtuale fra un gigante appartenente alla famiglia dei sassofoni bassi e un nanetto appartenente a quella dei soprani. I brani più importanti di questo disco sono però le versioni (improvvisata e composta) di Tech Ritter And The Megabytes; si tratta di due esplorazioni sul quartetto di sassofoni, una formula a cui il musicista ha storicamente dedicato molti dei suoi sforzi. Sempre all`interno di questo primo CD, con A Dim Distant World, `for percussion cage`, c`è una breve anticipazione di quello che sarà il clima del terzo CD, mentre 1999/2002, `for flute and percussion cage`, sembra voler giungere all`equilibrio, e alla fusione, di due mondi all`apparenza inconciliabili. Veniamo ora proprio all`ultimo dei tre CD, quello che ha consentito di trattare il cofanetto in questa recensione cumulativa, dedicato quasi totalmente alla musica per sole percussioni. Nell`arco di sedici brani il musicista fa il punto su una ricerca che va a rileggere, e recuperare, la grande tradizione degli strumenti a percussione nel suo complesso, sfruttandone la ricchezza per costruire piccoli quadri dalla fenomenale varietà timbrica e dalle azzardate strutture compositive (ancorchè spontanee). Come potete dedurre dall`immagine di fondopagina, e come vuole la miglior tradizione chicagoana, Mitchell si immerge, si mimetizza, addirittura scompare, in un bagno di tom-tom, campane, triangoli e cimbali, fino a creare un unico con essi, quasi prigioniero di quella che viene definita come una `gabbia` di strumenti a percussione. La saga percussiva è interrotta soltanto dai cinque episodi di “Music On The Go” (An Ambiguous Sign Of Life, On Rolling Hills, Jump, Green Sky e One Two And Red Blew) segnati dal disinvolto lirismo del sax soprano.
Con il CD di Wolff entriamo in una problematica diversa, o inversa, potremmo dire, dal momento che mentre Mitchell parte dalla tradizione afroamericana, quindi dalla musica improvvisata, per approdare anche alla composizione, Wolff è un compositore per formazione che poi si è avvicinato alle tradizioni degli idiomi improvvisati. E` un musicista che ha iniziato con Cage; faceva quindi parte di quel gruppo che già negli anni Quaranta lavorava su strumenti a percussione, e le composizioni di Cage, in tal senso, sono fra le prime in assoluto. Però, a differenza degli altri musicisti a cui era legato, non mi sembra che fino ad oggi Wolff abbia affrontato sistematicamente questo linguaggio, quindi questo CD è importante nell`economia della sua opera, e inoltre la scomparsa di molti fra i musicisti a lui contemporanei fanno di questo lavoro, tra l`altro molto bello, una specie di testamento o di memoria storica. Le differenze con Mitchell sono evidenti e si possono individuare in una maggiore rarefazione, in un`attenzione più spiccata per la melodia, e per l`atto compositivo, e nel fatto che laddove il compositore era anche esecutore, Wolff affida invece le sue partitura alla bravissima Robyn Schulkowsky (una curiosità : le registrazioni sono state effettuate a Pozzuolo, in Umbria). La quasi totalità dei brani è per soli strumenti a percussione, ad esclusione di due dove è presente una melodica suonata dal compositore stesso (Peace March, ben chiara, e Percussionist Songs No. 5, assolutamente indecifrabile) e di un terzo dove la strumentista si propone anche come voce recitante (Vergnügungen).
Ancora diverso è il lavoro di Jason Kahn, che con un salto spazio temporale ci porta in territori futuribili, cioè nei cambiamenti apportati dall`applicazione della moderne tecnologia nell`utilizzo dei vecchi tamburi, da Stockhausen in poi, attraverso l`impiego di apparecchiature elettroniche, microfoni a contatto, ecc. Il disco ripropone le tematiche già espresse da Kahn nei suoi concerti italiani di fine 2003, con stratificazioni di feedback e risonanze che sembrano derivare più dai “Battimenti” di Pietro Grossi o dalla ricerca di Alvin Lucier sulla saturazione dei suoni che non dalla tradizione degli strumenti a percussione. E` strano, casomai, che ad affrontare questa strada di spersonalizzazione dei tamburi sia un batterista puro, o almeno tale Kahn lo è per tradizione, e non un musicista alieno alle tecniche percussive abituali. Un altro disco notevole, anche se non sempre i risultati sono all`altezza dei concetti.
Un buon quadro sulla situazione contemporanea, almeno per quanto riguarda Berlino, ce lo da infine la raccolta di quattro CD-R “Berlin Drums” della Absinth (*), che fa seguito agli eccellenti “Berlin Reeds” e “Berlin Strings” e che precede un prossimo spostamento londinese per un “London Strings” che già si preannuncia memorabile (protagonisti il violinista Phil Durrant, il violoncellista Mark Wastell ed i due Davies, fratello e sorella, Rhodri e Angharad con arpa e, ancora, violino). Ascoltando questi dischetti, che rappresentano un po` quello che la batteria è stata, è e sarà , è facile comprendere come, quasi senza avvedersene, ne sia stata fatta di strada, e gli strumenti a percussione si siano oggi emancipati da qualsiasi ruolo prestabilito. Quella iniziale di Beins è quasi una dichiarazione d`indipendenza, con i battiti trasformati in un autentico flusso di suono e risonanze che non fa certo pensare alle tradizionali tempeste drummiche, casomai un riferimento plausibile può stare nella `strumming music` di Charlemagne Palestine. Il luogo di registrazione di Nadir, bel titolo, è curiosamente riportato da Beins con le coordinate geografiche che, se non mi sbaglio, dovrebbero comunque corrispondere a Berlino. A metà fra le concezioni di Beins e le vecchie tessiture di batteria tipiche della new thing, quindi in una posizione più conservatrice, si trova l`ottimo Tony Buck. Steve Heather, di origini australiane, si aiuta con le elettroniche per quello che, in senso di utilizzo strettamente ritmico, è il brano più tradizionale della raccolta. E, pure, è anche il più esteticamente innovativo, perchè trasporta il mezzo classico in territori `meloritmici` prossimi al linguaggio dei vari Aphex Twin. Eric Schäfer ripropone infine il tema della fusione, o assimilazione, di mondi diversi, sommando la sua batteria con i suoni di uno zither (una specie di dulcimer), e mi sembra che il suo lavoro sia il più prossimo alla tradizione improvvisata tedesca degli anni Settanta, dalla quale riprende lo stile energico, asciutto e privo di ogni consuetudine.
Quattro lavori indispensabili per chi segue la musica per strumenti a percussioni e sui quali, comunque, dovrebbero fare un pensierino anche tutti gli altri.
(*) Per motivi tecnici non è stato possibile inserire l'indirizzo web dell'etichetta che, comunque, potete trovare alla pagina dei link.
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