La semplicità , lo scorrere fluido e rilassato degli eventi, i tratti somatici fuggenti rendono “Escape Songs” un disco importante e capace di mettere d'accordo un po' tutti.
Cristof Migone e Veda Hille battezzano un lavoro, fin dalla confezione, scarno nelle informazioni e astratto nei contenuti. L'astrazione deve essere intesa come il lato positivo dell'opera, per intero sospesa e contesa tra sensazioni, esteticamente opposte, ma complementari per la piena riuscita finale.
Tutto si spiega nella contrapposizione del background dei rispettivi musicisti.
Migone, (s)manipolatore elettronico attirato dalle microwave di Steve Roden e Bernhard Günter, con la Hille, differente in un passato accademico maturato, nel corso del tempo, con linguaggi di ricerca.
Il titolo, canzoni che fuggono, mostra una spina dorsale fugace e spensierata e, se ciò può indurre ad una certa noncuranza dei due nell'assemblare i vari materiali, il complesso risultato finale mostra l'opposto.
“Escape Songs” è un disco articolato come non pochi, un lavoro tinto allo stesso tempo da tradizioni folk ed elettro-acustica, da disturbi(ni) glitch e da sprazzi di musica contemporanea, dalla ripetizione minimalista dei suoni e dall'uso intimista della voce, dai pacthworks concreti e dall'uso di melodie velatamente pop(peggianti).
Un alone domestico racchiude tutto un operato che ha visto i due registrare i vari materiali nelle rispettive camere (l`intimità e la solitudine lasciano una loro personale scia durante tutto il tragitto) e, anche se il termine lo-fi non calza a pennello, mi piace immaginare il mood dei due legato a quella estetica del DIY, dal piglio semplice e artigianale.
La voce (in fondo “Escape Songs” è un disco di canzoni, anche quando a mancare è la diretta interessata) della Hille a tratti cammina, ansima: più che cantare, preferisce procedere con andamento recitato (Sympathectomy, una stupenda ballata, si adatta al caso). Quando spetta, più raramente, a Migone fare sfoggio di ciò, lo vediamo cimentarsi nel creare intricati giochi ultra-minimali: loop vocali scarni e sussurrati sorretti dalla ripetizione lenta di uno stesso termine o parola; facile preda durante l'ascolto di Lick.
Per quanto riguarda la musica: da sotto si odono echi di pianoforte (la prima traccia senza titolo fa tuffare nelle melodie sognanti dell'universo di Luciano Cilio), suoni grattugiati e granulari, pulsazioni acute fuoriuscite dal basso, voci trattate, alchimie strumentali e strumenti inconsueti e inventati, echi e risonanze di (probabili) corde, tirate e percosse, andamenti tratteggiati, suoni smussati e levigati sezionati in micro particelle, lirismi pianistici surreali, suoni striduli e sghembi, cut up(paggi) radiofonici, scampoli di ambient, paesaggi notturni e riflessivi...
La dimestichezza nell'edificare un complesso emozionale, così vasto e compatto nell'intersecazione delle varie forme musicali, nasconde una buona dose d'improvvisazione, almeno questo è il sentore che si percepisce in più di un frangente.
Se, di recente, avete apprezzato le minuziose diavolerie di Sawako, le ballate nordiche dei The Iditarod, gli inconsueti assemblaggi percussivi di Un Caddie Reversè Dans L'Herbe, il primo glitch di Oval e Mouse On Mars, i riscoperti stati di coscienza di Luciano Cilio (ancora lui) e le varie textures di Roden e compagnia, “Escape Songs”, come accennato in partenza, riuscirà a cullarvi con l'ascolto in un unico blocco di tutte queste cose, in meno di un'ora.
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