Tentiamo di aprire uno squarcio sull'attiva Improvised Music From Japan. Lo facciamo, tenendo bene in conto che si tratta di un'operazione difficile, che meriterebbe uno spazio ben più ampio. La grossa mole di lavoro che un cerchio di artisti giapponesi ha ideato, e continua a progettare negli ultimi periodi non solo per la suddetta etichetta, è a dir poco impressionante e non sembra affatto diminuire.
Un'intensa organizzazione no profit, nata dalla cooperazione di più artisti, da diversi anni si occupa in modo equo di far conoscere, dentro e fuori il paese, il nuovo impulso musicale che gli batte dentro.
Una forte energia, che inoltre, diventa sempre più un input, o punto di riferimento, con cui amano confrontarsi le diverse correnti geografiche della nuova musica improvvisata.
Al pari delle uscite discografiche si alternano pubblicazioni di riviste d`approfondimento (sino ad ora sono usciti due numeri voluminosi che focalizzano l`attività svolta intorno al biennio 2002-03) dove è possibile leggere interviste, consultare recensioni, scoprire futuri progetti, come venire a conoscenza dei vari punti di vista sull'intendere il suono tra gli artisti del posto e non.
Una delle ultimissime uscite vede Otomo Yoshihide iniziare un rapporto di collaborazione con due degli artisti più quotati di Seoul; e quindi aprire un varco su di un paese, e la relativa comunità artistica, poco noto fino ad oggi. Prima di approfondire, però, vorrei usufruire di questo spazio per menzionare lavori usciti già da tempo. Opere che meritano di essere conosciute per gli scopi originali e 'bizzarri' che si propongono di raggiungere. Il primo della serie vede la cantante Ami Yoshida che, reduce dalle stampe di "Tears" a nome del progetto Cosmos insieme a Sachiko M, dà alla luce "Tiger Trush". Lavoro che predispone il solo utilizzo dello strumento madre, la voce. Un tragitto solitario che nei 99 tasselli, che compongono per intero il mosaico, propone in maniera superba un`avanscoperta, alla ricerca di tutte le funzionalità che si possono trarre dall'utilizzo delle corde vocali. Sia esso lineare, disturbato o, come nella maggior parte dei casi, frastagliato. Un viaggio labirintico che, in alcuni punti, di sicuro può trarre in inganno l'ascoltatore ponendogli dubbi sull'autenticità delle fonte di partenza. E' facile, infatti, incappare in tonalità molto vicine per estetica a certa microwave riduzionista. Una destrutturazione dove per la componente vocale è facile, e anche scontato, accostarsi agli esercizi stilistici di Joan La Barbara ma, passando per altre realtà , ben gli si addicono anche i vari esperimenti chirurgici/sezionatori sui fiati di Franz Hautzinger quanto dei due Nmperign. Bravissima.
Andando avanti incontriamo il batterista Shoji Hano, forse l'unico personaggio dell'intera congrega ad essere legato ad una tradizione più 'classica' di stampo jazzistica. La sua carriera comincia negli anni 80, portandolo pian piano a collaborare con diversi capisaldi della scuola europea. Tra questi spiccano i nomi di Derek Bailey e Peter Brötzmann, con il quale stringe un intenso rapporto che dura ancora oggi. Per l'improvised sono usciti due lavori: "48", primo full lenght da solo registrato durante una performance in quel di Tokyo al Bin Spark nel marzo del 2003 e, più recentemente, una ristampa dell'intero concerto, avuto insieme all' iconoclasta Brötzmann, nel '91 all'Aku Aku di Tsukuba, "Funny Rat". Confesso di non aver mai amato in maniera spasmodica la forte carica di rabbia con cui il veterano musicista tedesco ci ha abituato, e continua ancora oggi, quando ci si trova a confrontarsi con il suo tenore. Trovo che il suo discorso si ripeta e, come un gatto che si morde la coda, Brötzmann da più di trent' anni a questa parte gira e rigira intorno insegnamenti, e ricerche, affrontati oculatamente già da un punto cardine come Albert Ayler. L'unica differenza si trova nell'eccessiva mistura di aggressione e potenza viscerale inferta allo strumento. Il concerto, infatti, ripercorre bene i concetti sopra esposti e Hano ben si adatta nel seguire i brutali andamenti del 'maestro'. Lo fa drummando all'ennesima potenza, vibrando in mille direzioni a velocità elevata... e, ritirare dal dimenticatoio la carica dirompente di un Sunny Murray, non credo sarebbe una cattiva idea. Il cambio di registro, come dicevamo, per "48" non può che allietarci, perchè è dai velati giochi ritmici, dal rapporto intimo con il proprio strumento che Hano sa deliziare di più. Due sole tracce, per un totale di quasi un'ora, dove a trapelare è un sano background a base di forti dosi con ascolti di Max Roach (come non pensare a "Drum Unlimited") ed Elvin Jones. Nelle note informative, curate da Kazue Yokoy, colpisce un 'affermazione cui Hano fa, ossia: "I'm a drummer, not a percussionist". Penso che questa frase riesca meglio di qualsiasi descrizione nel chiarire cosa ci troviamo dinanzi.
Finalmente si arriva al trio composto da Otomo Yoshihide e dai due coreani Park Je Chun e Mi Yeon. Prima di tutto va fa fatta una precisazione, il disco gode anche di contributi sonori, aggiunti di seguito in una fase di sovrincisione, che recano a turno le firme di Gϋnter Mϋller, l'immancabile Sachiko M e Tanaka Yumiko. Chiariamo subito che la strumentazione, ma principalmente il mood, dei due coreani si attesta unicamente su di un uso acustico. Sia Je Chun alle percussioni che Mi Yeon al piano, sembrano essere particolarmente attenti nel prediligere, e mantenere per tutto il percorso, un suono pulito che non si vada ad alterare in qualcosa di indecifrabile. "Loose Community", nei 5 segmenti che l'attraversano, è un ibrido che prende spunto da diversi concetti della musica contemporanea: jazz, musica colta ed elettronica, i quali a loro volta si amalgamano a piccoli ritorni alla tradizione musicale del vasto Oriente (si senta l'eccellente adopero che fa Yumiko del Futozao Shamisen e le percussioni durante la seconda traccia). Assolutamente carico di sfumature, vi è un continuo sali e scendi tra meditazioni serafiche e attimi tumultuosi. Riesce difficile, e forse anche inutile, descrivere i diversi anfratti del disco. Mi preme solo segnalare in chiusura Mi Yeon e il suo armeggiare il piano. Dà l`idea di essere legato alla scuola jazz europea (Misha Melgelberg in particolare). Un musicista di cui, ci auguriamo, sentiremo parlare più spesso.
Aki Onda, invece, con quest'uscita comparsa al calare del 2003, non ha dovuto sudare sette camicie per inserirsi tra i dischi più interessanti ascoltati di recente. Posizione non solo del sottoscritto, visto che anche la blasonata Wire non ha esitato nell'inserirlo tra i lavori più gettonati nella playlist di fine anno. Nell'udire "Bon Voyage! On a Journey Tracing memory", mi sono divertito a trasportare l'altra attività artistica di Onda, quella di fotografo, dalla forma che abitualmente intendiamo 'classica', a quella di reporter sonoro. I 14 anni impiegati nel raccogliere su cassetta molteplici field recordings, gironzolando per mezzo continente (New York, Rio de Janeiro, El Salvador, Tokyo, Parigi, Tangeri, Lisbona, Londra...) tra il 1988 e il 2002, non possono che presentarsi come carta da visita di un artista che non sente, affatto, il bisogno di correre in tutta fretta verso il traguardo. Scorci naturalistici, cinguettii degli uccelli, piogge tropicali, acqua che sgorga dalla sorgente... si contrastano con i rumori urbani emanati da metropoli altamente industrializzate (il veloce vociferare delle persone durante una fermata della metropolitana o l`attesa movimentata all`interno di un aeroporto) con quelle ancorate ad un ritmo di vita ancora `arcaico` (il borbottare di un mercato affollato, il canto di un bambina a Tangeri).
Discorso simile a quello fatto per il trio: descrivere certe musiche in maniera razionale, oltre ad essere difficile per la matrice degli intenti che si prefiggono, è un vero peccato nei confronti della singola immaginazione del fruitore. Delle volte bisogna lasciare alla fantasia il compito di pensare ciò che meglio crede, senza alcun vincolo che induca ad un`eccessiva schematizzazione di ogni singolo movimento. Specialmente nel caso in cui lo strumento posato nelle mani dell`artista, è la realtà esterna, la vita che pulsa quotidianamente con tutti i suoi rivoli.
Per le note informative, dico solo che oltre a varie intermittenze di loop all`interno delle varie registrazioni, la conclusiva Good-Bye è una costruzione dei suddetti field recordings sotto un assetto, `classicamente' sonoro, nella migliore tradizione della musica d`ambiente.
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