Secondo la bizzarra definizione della multi-strumentista Laura Ortman, che assieme a Bryan Zimmerman e Ken Switzer firma i brani di questo disco, la musica dei Dust Dive sarebbe 'party songs without party music'.
Ho riflettuto un po` su questa definizione, ed in fondo, per quanto stramba possa sembrare, potrei sottoscriverla, nel senso che vedo bene le note di questo loro secondo lavoro a fare da sottofondo a quel tipo di feste dove non si balla ma si beve parecchio, molta della gente fa tappa fissa in cucina, dove a qualcuno salta in testa alle quattro di mattina di fare un piatto di spaghetti, mentre altri si affrontano in un acceso ma pacifico dibattito politico, accanto ad una neonata coppia. Mi piacciono le feste così. E mi piace questo disco, sebbene gli si possano trovare parecchi difetti, primo tra i quali quello di illudere l`ascoltatore con un attacco energico e potente, un po` blues un po` Beatles di “Help”, per poi assestarsi su canzoni tendenzialmente lente e vagamente statiche, costruite su un cantautorato sicuro (la voce e la cadenza ricordano parecchio il nostro De Gregori) che si fa strada tra organi, violini e disturbi di vario genere. Un riferimento piuttosto vicino potrebbero essere i Sebadoh o anche altri progetti del buon Lou Barlow, per una musica che tra coretti e sibili da radio fuori sintonia costruisce un folk visionario, un patchwork di suoni melodici e stranianti, in perfetto legame con quello di foto, scritte e disegni del bel packaging in cartoncino che racchiude quest`ennesima valida release di Own Records.
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