Da sempre, ho nutrito considerevoli dubbi concernenti l'idea di
commentare opere di musicisti con cui (con)dividevo e con(divido)
dischi assieme. E` come scrivere della propria musica, se non altro
per il fatto che quello che si fa è indubbiamente difficile da dire,
proprio perchè accade e mentre avviene si sta già pensando ad altro..
e così, il lavoro di Dora e Delphine, musiciste misconosciute qui in
Italia e di cui mai si parlerà abbastanza, segue la medesima tendenza
riferita al tacere di fronte a se stessi. Come poterne scrivere?
Analizzerò la mia idea di musica, la loro, la nostra? Così, sono
trascorsi alcuni mesi; questi dischi erano qui come delle istantanee,
assai interlocutorie. Per diversi mesi io e loro abbiamo cercato di
sviluppare qualcosa che non fosse la somma di nessuno di noi e questo
ha fatto sì che ci frazionassimo e ci riducessimo al minimo al punto
da non sentire più alcuna differenza poichè non c`è più alcuna
individuazione. Ora che i nostri reciproci lavori sono arrivati al
capolinea, quel meccanismo incestuoso si è sciolto ed io posso
finalmente rapportarmi al corpo della loro musica come ad un corpo
(finalmente) estraneo.
Sia Dora che Delphine mi hanno sempre affascinato perché, sebbene da
due binari quasi completamente opposti, indagano dell'avant-folk il
loro tratto `incompiuto` e `cerebrale`. In comune hanno il fatto di
lavorare su strutture aperte, che non lasciano mai che `l'appoggio`
trovi nel mezzo di un brano il suo compimento: così disseminano le
loro canzoni di `aperture`, in cui più la ripetizione dello strumento
base (per Dorothy la chitarra classica e per Delphine il pianoforte)
consolida l'avvicendamento della percezione piuttosto che
l'impalcatura ad accordi. In questo modo le loro composizioni possono
spaziare su territori assurdi senza pagare il prezzo di doversi
accorciare attorno ad una melodia prestabilita. E quindi di fronte al
loro folk ci si trova di fronte ad un'opera aperta che potrebbe
spaziare per ore e continuare così per sempre. Entrambe racchiudono lo
spazio della canzone in una struttura ansiogena e piuttosto
scheletrica su cui man mano, attorno, si presentano altri spazi ancora
aperti favoriti dall'interlocuzione con gli strumenti basici. Marked
of Memory, il primo brano di Axa Hour of Dora Bleu già racchiude per
intero l'intento palesato dal disco: una voce che commenta, non
dissimile da quella di Suzanne Langille di "Enchanted Forest", su cui
attorno si stagliano elementi torbidi, a tratti lunari, favoriti dagli
interventi di cello e piatti, e dalla chitarra della stessa Dorothy.
Alexander St-Onge fornisce un contributo assai rilevante all'intera
struttura modale del disco: lo protegge da figure in movimento come se
a contenere gli elementi del brano non fosse la chitarra stessa quanto
tutta la dispersione che si genera intorno. E` quindi il tratto
elettroacustico di questi singoli segni (non a caso Dorothy lavora da
anni con Simon Wickham-Smith che è tra i migliori precursori di un
neo-industrialismo basato sulla meccanica del flusso) a connaturare i
vari passaggi asincroni delle continue stazioni che attraversa questo
treno notturno, un po' furibondo, impastato di maledizione,
avvicendato da importanti segni neo-classici, improntato sulla misura
di una mente pluriverso che scandisce con pochi e serrati tratti tutto
l'underground in caduta libera. Si tratta di mari che spezzano i
volti, di monumenti sottobraccia con interi vuoti, di canzoni che
nemmeno avvertono il pericolo di essere materia d'impronta per la
memoria o di conquistare la normalità minima dell'apprensione: non li
ricorderete come si ricordano tutti i brani che si amano e non si
possono ripetere perchè non sono fatti per essere mandati a memoria.
Le trame scricchiolano perchè sono tutti cristalli rotti tesi sul
picchio di un diaframma che trattiene qualunque attesa progressiva: si
tratta di rinunciare ai ricordi (cosa con cui questo disco fa i conti
e contemporaneamente fa i conti anche con l'improvvisazione che per
antonomasia è la fuga dal fisso). Solo alla terra è permesso di
rinunciare alla terra e questo pavimento flebile che trattiene gambe,
braccia ed arterie nervose di questi quattro musicisti in una stanza,
ha a che fare con l'aria più che con superfici malleabili e calca le
medesime linee spigliate di chiarore che furono di Douve di Bonnefoy:
«Ti stringo fredda a una profondità in cui le immagini non si fanno
più ghiaccio». A Dorothy importano segni sottili, non si tratta di
annunciare oracoli, quanto d'immagazzinare Apocalissi per tempi a
venire e trovare in questi stadi intermediati una specie di ospite
inatteso, di conoscere i figli che sono stati padri piuttosto che i
padri che diventano bambini; opalescenza e rigore, e pochi ed ultimi
gesti senza il clamore del folk, senza che il musicista vi dia il suo
volto non prima che vi abbia donato il riposo a bordo di metamorfosi e
bussole senza più freccette. A volte dentro il folk c'è più Berio che
John Martyn!
Anche il disco di Delphine è stato concepito nel 2007; anche questo
lavoro è fatto d'improvvisazioni intese come sessioni aperte senza
tagli e senza rimontaggi. Ma laddove Dorothy mantiene la sovversione
all'interno di un'unica suite che sembra più domani che oggi, Delphine
sbriglia le sue canzoni in manciate di minuti che vanno sempre verso
un'isteria collettiva, una schizofrenia cosmica fatta di sangue
rappreso e radiosi gesti pluricromatici: laddove le note di Dorothy
sono dei droni ottundenti e bilanciati, in Dora'Li si fanno incontri
che tremano come si trattasse di insegne scannate, di fornicazioni
irradiate a cui è stato posto movimento senza segretezza. Se il folk
abitasse da queste parti proverebbe orrore per la seconda, la terza,
la quinta, l'ottava prova: `il segreto` di questi materiali è quello di
trovare un musicista pronto per eseguire una sola volta i propri
errori. E così torna la memoria, torna la carta imbellettata di segni
e tornano anche i registratori portatili per inseguire la materia
fluente che parla d'invenzioni di luce, di crepuscolari docili a cui
sovvengono speranze d'amore, a cui seguono quasi solitamente
depressioni in corso, orrende giornate, orrende ore. Delphine , come
tutti quelli di questa nuova generazione di folkers, è passata alla
stessa maniera da Angelique Ionatos, agli appuntamenti della "Carnival
folklore resurrection", ha ascoltato Robert Ashley ed un istante dopo
Ida Cox... si tratta di una generazione che ha fatto i propri conti
con l'universo della follia, dell'arte impossibile (Delphine studia
arti visive), e se al posto di un piano avesse imbracciato un laptop,
le distanze tra Zeek Scheck e Jacob Oulasson si sarebbero certamente
assottigliate. Uno degli interessi di questa nuova scena folk che
guarda alla Finlandia (Delphine ha suonato spesso con Lau Nau)
contaminando la propria esperienza sonora di dodecafonia,
interruzioni, angosce, mali palpabili, consiste innanzitutto
nell'azzeramento delle `radici`. `Root` diventa `Truancy`: perchè si
ritiene che sia impossibile sorvolare sul corpo della musica,
innescando con essa un dialogo possibile, e poichè tutto diventa
`necessario`, si ritiene che sia necessario passare attorno agli idoli
per ammazzarli e vedere cosa significa fare i conti con la demografia
ipergenerazionale e con la fine dei dischi che diventano materiale da
recuperare un giorno. Questi dischi si devono recuperare ora, perché
un giorno saranno superati dagli stessi autori, saranno forse
disconosciuti e poterli ascoltare mentre si presentano a noi e non 40
anni dopo, significa anche comprendere appieno la confusione di cui le
opere attuali sono investite per il fatto stesso di nascere con un
istinto e con la leggerezza che solo una persona che può scrivere
quanto può disegnare o guardare una spiaggia in movimento può (anche)
innescare. Si tratta esattamente di piccole bombette ad orologeria
per tempi incerti, come sono sempre stati incerti i tempi finora ma
oggi di più tra cd-r, cd, lp, a iosa che non si ha nemmeno il tempo di
ascoltare. Si tratta di dischi che andrebbero messi all'unisono per
risparmiare un'ora del proprio tempo libero e poter dire di averli
ascoltati insieme come un flusso magnetico senza che questo abbia
comportato ferirli, o annientarli per un atto privo di parsimonia. Le
possibilità che avevano dato luogo ai primi materiali lo-fi, in
particolare quelli di Alastair Galbraith, ovvero registratori
portatili, reverse e chincaglierie sixties, oggi passano per un iBook
e per il Garage Band, ed i singoli strumenti non sono più strumenti
quanto segni, ovvero rapporti frequenziali, e l'intenzione che coabita
sia in Dorothy che in Delphine sta proprio nel fare di un brano
l'insieme di strutture frequenziali, di dispositivi elettroacustici,
piuttosto che di melodie folk, o di strumenti suonati secondo le
diottrie consentite. Che questa strada porti all'isterismo, al
lassismo sprotetto di certezze, che porti ad un pubblico sempre più
ridotto e che questa generazione di artisti vada ad impelagarsi quasi
in maniera sprovvista delle canoniche rassicurazioni, quasi
d'emergenza, questo è esattamente il limite verso cui si va incontro.
Si tratta di opere destinate ad una ristrettissima fascia di
ascoltatori, stanca del folk ed alla medesima misura stanca
dell'innovazione. A voi la scelta.
|