Questo disco fa parte di quei tipi di opere per i quali mi sento profondamente impreparato: mi riesce infatti estremamente difficile recensire una musica che affonda le proprie radici in conservatori e background accademici, colti. Non è un caso che nella `redazione` di Sands-Zine questo disco sia rimbalzato da più parti (per poi finire non so come a me). Mi affido dunque alle lunghe note dell`autore per accingermi a commentare questo “Formaldeide”, che pare basarsi su due intenzioni di base. La prima è esplicata così: «Non avrei potuto trovare titolo migliore per questo mio ciclo di otto composizioni: in effetti, quello che vorrei producessero nell`ascoltatore è [...] una sensazione al tempo stesso carezzevole e straniante, evocativa e fragile, dolce e anempatica».
Dunque, a questo punto, a prescindere dalle mie capacità o meno di leggere uno spartito (addirittura nel booklet ne è illustrata una parte!), vorrei cercare di capire se questo intento dell`autore va segno o meno.
La risposta, giunta dopo ripetuti ascolti, è: per questo primo assunto sì. Il disco si dipana davvero leggero e fragile, tra le note di piano, flauto, clarinetto e sax, a tratti estremamente rarefatto (l`incipit di 2), vicino a certo sublime minimalismo reiterativo (1), giocoso quanto certo jazz (le accelerazioni di 2, il quasi swing di 5), cupo e malinconico (3 e 6, perfino sognante a tratti)... I riferimenti però alle singole tracce, non a caso senza nome, sono forse fuorvianti, dato che il lavoro sembra costituire un continuum musicale e logico, con cui l`autore cerca di mescolare influenze (e qui il secondo intento): quelle colte (Bartok, Stravinskij...) con la modernità del pop (Depeche Mode e Radiohead sono tra i gruppi citati!), passando , con successo, per le colonne sonore di Badalamenti. A questo punto, il disorientamento è totale: si riconoscono melodie a volte facili, soprattutto quelle sorrette dal pianoforte, ed al tempo stesso stridori ed inciampi affidati soprattutto al clarinetto, ed invero nasce uno spaesamento che porta l`ascoltatore come per una passeggiata in punta di piedi su uno stretto muricciolo. Vincenzo Ramaglia ci tiene per mano, passo dopo passo, facendoci però degli scherzi, dandoci delle piccole spinte, comunque rispettoso, senza farci cadere, senza farci chiedere di tornare indietro o smettere nel corso di questa faticosa ma gratificante esperienza.
Ho comunque delle perplessità : forse questo secondo intento fallisce in parte. E` lodevole l`intenzione di rendere la musica contemporanea (cui di fatto questo disco appartiene) più vicina a territori di ascolti leggeri, ma quanto al risultato, a mio avviso comunque “Formaldeide” resta più prossimo ai grandi compositori che ai Radiohead (ne è un esempio la complessa tessitura di 7). Questo non è necessariamente un difetto, forse appunto solo un piccolo fallimento negli intenti: il mio timore è che difficilmente dischi come questo potranno fare breccia in chi viene da un mondo `pop`, o anche in chi si addentra periodicamente nel mondo della musica sperimentale. Credo sia un buon passo, ma forse ne sono necessari altri, ci vorrebbe una commistione non solo intellettuale, ma anche creativa e soprattutto umana con musicisti che vengono da ambiti del tutto diversi. Non so se `geniali dilettanti, per dirla alla Blixa Bargeld, riuscirebbero poi a comunicare una volta assieme in sala di registrazione, ma credo di sì. Non voglio dire che Ramaglia dovrà invitare Martin Gore alle prossime registrazioni, ma magari un qualche musico del giro 12k o perfino Morr (vedrei benissimo F.S. Blumm) non sarebbe male. Azzardo: sogno l`ultima, comunque già bella traccia (come tutto il disco del resto), suonata assieme ai Trapist: sarebbe un capolavoro.
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