Le macchine sono ovunque; dovunque hanno macchine. A seguito di questa onnipresenza, anche negli spazi interstiziali a componenti pure, tra bolle di cartilagine e rimbrottamenti da territorio non-demarcabile, esistono altre macchine potenziali che si muovono tra sintesi connettive nell'infinito spazio naturale del cervello; e questo disco è una di queste macchine solitarie... "La filosofia che vogliamo è di flussioni e mobilità ; vogliamo una nave in questi marosi in cui abitiamo. Una casa angolare, dogmatica si sfascerebbe in scaglie e schegge in questa bufera di molti elementi": queste sono le parole di Emerson. I suoni di Fabio Damiani, discendono istantaneamente da questi spiragli di asma, di sfacelo e naufragio. I suoni presenti in questo gioiello elettroacustico hanno certamente germinato con una straordinaria lucidità gli ingranaggi fantasmatici-negativi basati su oppiacee dosi di economia libidinale, preconscia e brulicante d'immagini sezionabili su parecchie conseguenze assiomatiche. Questa sua opera prima che non è ancora somigliabile ad una prima opera perchè non ha il plusvalore di ciò che certe opere prime ha precarietà (ma non debolezza) ed è antiriduzionista allo stato puro (perchè non si accontenterebbe di pochi suoni per troppo tempo); è un lavoro senza continuità termica, senza repressione estetica, senza alcun intento di sbocciare per qualche autocompiacimento; affronta il ritmo per lasciarselo alle spalle, sfiora i multistrati per poterli demarcare di un'implacabilità logica ed auto generativa. Avvicinare metà di un orecchio a Rewiring significa certamente meditare su qualcuna delle patologie dei nostri giorni: è un'opera senza saperlo, e senza nemmeno volerlo essere... come lo erano i pezzi già pronti di Duchamp dove diventava e qui diventa necessario mischiare, rielaborare non tanto per disinnescarli dai propri incastri, quanto per innescarli su nuovi spazi e nuovi criteri. Per queste ragioni questo disco non appartiene a scenari, tempi, esigenze, presupposti, attenzioni e non ne vuole; sarà difficile che dischi così possano piacere o interessare se non una piccola ma attenta schiera di ascoltatori: dentro non troverete "flussi d'innovazione" (e potevano nascere anche 10 anni fa o tra 10 anni) e nemmeno "flussi di moltiplicazione" (ovvero se ne sbattono di ripetersi ab libitum); ci troverete invece il marchio di una creatività assai molteplice, irrequieta, dinamica, e soprattutto sincera. Non voglio, come l'autore intenderebbe fare (certamente conscio del suo intento e delle sue ottime capacità ) soffermarmi su un brano specifico, o sui rimandi letterari ma anche figurativi che questo tipo di sistemi sonori ricalcano o ricostruiscono. Quello che m'interessa sostenere è che qui siamo dalle parti di Uli Troyer che fa a pugni con Amon Düül II, o siamo dalle parti di un Flim ottimista da mezzogiorno e di una nuova originalità di cui la cosa più abbagliante è la capacità d'intarsiare e di narrare scenari con una musica che è l'insieme di diversi stati emotivi ed affettivi. Dentro questi suoni c'è l'interno, l'esterno, ed un interno ancora più insondabile che è l'insieme emozionale del suo autore che ci viene donato e non ci resta che ringraziarlo.
|