Credo bisogni evitare l`errore in cui sono incorsi alcuni addetti-ai-lavori, inquadrando in partenza il battesimo di Copeland, come una tappa successiva del mood di progetti cooperativi paralleli, ove il nostro, oltre a militare da sempre, è perno fondamentale dell`ingranaggio. I lettori già suppongo avranno intuito, mi riferisco ai Terrestrial Tones e soprattutto ai Black Dice: affermate istituzioni, figlie della nuova (non) scuola elettro-IDM-freak-noise-collagista d`oltreoceano che il giovane Eric ha contribuito a solidificare, per e nella sua eccentricità , ma che comunque non collima `sensorialmente` con la `stimmung` di “Hermaphrodite”.
Due anni di spasmodica archiviazione-samples e di editaggio-rifinitura finale foderano l`anima di questo cd, congedato dai tipi della Paw Tracks (con cui esce anche l`ultimo Black Dice, “Kolomo”), comprendente dodici piste, le cui fonti (campionamenti, ispirazioni) si denotano per laboriosità e materia esplorata. Copeland elabora i brani inseguendo una prospettiva rotatoria, alimentando l`idea di udire, per oltre quaranta minuti, un dotato bagaglio di campioni sciorinare mediante corpulente disposizioni a forma di loop. Materiale sonor-o-rganico globalizzante; Un pittore non votato agli sguardi monocromatici; uno scultore che cagiona alla pietra o al marmo forme zigzaganti e non conformi; la vista di un paesaggio in cui coesistono scampoli di folk-tronic con pirotecniche cascate di drone-music; misture di ipnotiche reiterazioni elettro-magnetiche e bastimenti carichi di percussività tribale e tantrica; un doppiopetto estetico cucito con propulsione ritmica à la Stomp e con nobili minimalismi alla Theater of Eternal Music (la title track); una trasvolata selvaggia tra clangori esotici, giunti da umori e strumenti di lontana memoria, ri(&)letti da un vocabolario noise, avvezzo al modernariato digitale; uno spiritello della manipolazione in stile `absurd` che si distrae a scuotere i neuroni con piccoli dispetti lounge e con perentorie allucinazioni di sfibrata&tropicale armonia hawaiana.
Oreo, talmente agitata da far venire il capogiro; Mouthhole, apertura spaziale, giocattolosa, infantilmente country-pop alla maniera dei cugini Animal Collective (i migliori, quelli defunti); Green Burrito, acre mixage di sconosciuta ferraglia e materia mettaloide-metallurigica, campionata e trucidata nello stesso istante da una voce granulosa e inferma, sofferente, che rantola da sotto con angoscia lynchiana. Un velluto vocale non comprensibile e paranoico, una gettata di incubi reconditi a portata di mano. Wash Up, lamenti lirici, virtuosi ed isterici, tutti al femminile, accavallati a ondate frequenziali e sovrabbondanze elettroniche. Furtive ed essenziali le proposte del manifesto di distorsione zen in Scumpipe; ancora terzomondiste e calienti le rettificazioni ritmiche, continue e armolodiche di Spacehead.
“Hermaphrodite”, come si capirà , è un fulcro di emozioni assolutamente in-catalogabile; esso rappresenta la massima anarchia, sin'oggi, mai (ri)trattata così bene nella/dalla musica moderna. Un satellite puntato alla globalità del suono ed alla sua trasmissione-traformazione in una costante verniciatura di (af)ferrato elettro-noise-act moderato. Ascoltatelo in continuazione, come un mantra (metropolitano-giunglesco) e fate in modo che l`intera scaletta cambi alle vostre orecchie in un solido e infrantumabile loop.
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