I Brasil & the gallowbrothers Band sono una di quelle formazioni che adoro quasi per partito preso! Nel 2004 uscirono su Last Visible Dog (il secondo disco, perchè l'esordio avvenne due anni prima) e poi nel 2006 con "Legionowo" su Monotype (su cui sono stati pubblicati anche i lavori a nome Mirt, di cui ci siamo già occupati in queste pagine), e sebbene, qualche cattivello possa pensare che questo top sia stato elargito dalla vicinanza che mi lega alla band in termini di collaborazioni reciproche (il paese è piccolo e la gente mormora), bisogna necessariamente sgombrare qualunque dubbio e di ragioni per amarli ce ne sono a iosa. In questi tempi caratterizzati da un eccessivo incremento discografico con conseguente diarrea pseudo-artistica ben imparentata ad approssimazione ed ignoranza, in questi tempi decisamente lugubri dove la stratificazione viene scambiata per decostruzione e dove i brani vengono giudicati in funzione della loro "ascoltabilità ”, in questi tempi di sciacallaggio barbaro, fatto d'innumerevoli dischi che si spalmano su HD sempre più ammantati d'informazioni binarie, i B&TGB esercitano un potente coacervo fatto di segnali fantasmatici ed influenze totali, in una musica che diventa sempre più post-moderna nel senso più nobile del termine. Sono duri i nostri tempi per formazioni come queste perchè c'è il pericolo che possano essere scambiati per cloni sonori gruppi così, e poichè la musica è tanta ma l'attenzione dedicata ad essa ne resta inversamente proporzionata, i primi a rimetterci sono quei musicisti che non si allineano alle mode correnti e che non cercano in un paio di note ripetute per diversi minuti i gusti di un pubblico impantanato e spento. I Brasil sono polacchi ma non hanno una collocazione geografica: non credo che parlino della loro terra e non fanno una musica che è estenzione di un territorio; non interpolano il "post" attorno al canovaccio logorroico delle sfumature consolidate ma cercano di sperimentare la differenza nella ripetitività di cui si nutrono le loro composizioni. Questo significa che per loro la musica è già partita dopo e che quello che stanno cercando di fare è innescare dinamite sui circuiti patetici della musica seriale, come una svolta sostanziale basata su un decisivo rimaneggiamento delle tessiture e delle strutture canoniche del rock e dalla loro terra sognano un Brasile che non c'è e caricano questa freddezza canonica del desiderio verso lidi che appaiono di volta in volta spuntati come paesaggi in costante disgregazione. E di personalità ne hanno da vendere! Anche il loro immaginario incongrafico ne è prova fantasmatica: una sorta di megaillustrazione fumettistica dove si rappresentano come dei fantasmi che barcollano su strade apocalittiche e marcate di tinte invernali. E la loro musica è un insieme di costellazioni nude, un piccolo insieme di meteoriti che vagano solitarie ma che stanno tutte insieme nello stesso spazio naufragato.
"Hi brasil is where we are", già dal titolo ironico, si presenta dietro due batteristi con forti influenze tribaloidi come un'indagine poliritmica e stratificata e difficilmente collocabile; un esempio ne è il primo pezzo, quel Aune che parte come una sigla da synth cosmico per trasmissioni future e poi prende subito il bordone del ripiegamento nostalgico, con una voce assai sintomatica che sta tra i primi LaBradford ed un certo pampsichismo. La traccia si mantiene su ritmiche cinematiche per poi sprofondare in una tribalissima sequenza alla Popol Vuh senza mantra herzoghiani ma con eleganza minimale ed ipnotica. Passano dieci minuti ed è come se ne fossero trascorsi dieci di anni ma in un solo secondo ed hai tutto lo spazio per sentire, per agire, e la musica ti lascia tutta la possibilità di continuare tu stesso ad esercitare una forma d'influenza su di essa. Journey begins è ancora più emblematica perchè si dipana su singolari sfasamenti vocali e su percussioni che si moltiplicano con strumenti che mantengono una loro eterogeneità da fare di ogni singola partitura una canzone specifica: e questo non è rock sperimentale ma composizione canonica. Lo si legge dalla necessità unica di mantenere respiro nelle singole sequenze, dall'abilità con cui questi 5 personaggi incrociano i loro sguardi per costruire questi sinfonismi stralunati ed oscuri e dalla base che si sbilancia sempre su cadenze che di volta in volta assumono morfologie differenti. Poi arriva il terzo pezzo e viene da chiedersi cosa potevano essere i For Carnation se avessero imboccato l'insana via della sconnessione, perchè i lidi sono quelli e l'impatto emotivo è lo stesso e non è un caso, e nemmeno un mistero che alla base di tutta la musica di B&TGB ci sia l'ombra ossessiva degli Slint riaggiornati ad oggi. Interview è poi un miracolo o giù di lì: si sente "l'alterazione" di ogni singolo dettaglio che si sfrana dietro un intreccio che fa sempre più fatica a rimanere fermo e si dirama incessantemente attorno a poche note ma basate su aritmie: infatti, al di là delle singole chitarre che scorrono come movenze estranee, la struttura lessicale dei B&TGB è contrappunto, timbrica, ritmicità che si sconfina, che si evolve e che implode e si sbatte. In tempi così infami come questi,l'arte dei B&TGB consiste nello spalmare colori carichi di elementi memoriali, nostalgici ed ipnotici su partiture in costante tensione e dispersione, e la loro bravura sta nel mantenere un rapporto plastico e di rispetto con l'orecchio, che non li porta mai alla saturazione ma che di ogni singola nota fa differenza e disperazione. Si spera che, stando alle statistiche moderne, un top possa far vendere un paio di dischi dal momento che i giornali e chi ne scrive sono diventati la bussola del file-sharing più feroce.
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