Gli Anatrofobia ritornano alle origini, al trio sperimentale dei primi due dischi (a mio avviso ciò che di meglio ha espresso la band) che giocava con i silenzi, che allungava il suono, producendo e colmando vuoti, che si offriva alla contaminazione elettronica, prima che arrivasse quel jazz-rock che ne ha caratterizzato poi le (ottime) produzioni. Ma ha ancora senso parlare di improvvisazione per un gruppo come gli Anatrofobia in cui l`affiatamento dei tre membri originali lascia già presupposti gli sviluppi istantanei e istintivi della musica, e in cui uno sguardo di Luca Cartolari (che degli Anatrofobia rappresenta un po` il direttore d`orchestra) diventa un segnale inequivocabile e categorico per i partner artistici di una vita? La dicotomia improvvisato/scritto perde qui la sua ragione d`essere. La loro musica è un corpus unicum in cui tutto è la naturale conseguenza di tutto. Non fatevi ingannare dalla divisione in tracce, “Brevi momenti di presenza “ è un`unica opera coerente e necessaria dall`inizio alla fine, equilibrata tra digressioni sonore, inserti elettronici e sfuriate free jazz. I punti focali di questo ritorno alle origini, e di conseguenza i termini di questa recensione, mi sono chiari già da un anno, dal momento in cui li ho ascoltati dal vivo provare il nuovo assetto. Era un periodo in cui, saturo, avevo ormai perso gran parte della voglia di ascoltare (per puro piacere) un disco, in cui ho preferito di gran lunga circondarmi di silenzio ed immergermi nella lettura di un (qualsiasi) libro, piuttosto che di prendere un cd in mano ed inserirlo nel lettore; il concerto degli Anatrofobia mi è piombato addosso come la manna dal cielo, facendomi riscoprire, come fossero nuove, le motivazioni che mi spinsero. svariati anni addietro, a diventare con un `fissato` della musica (per dirlo con le parole dei mie genitori), riconciliandomi con la musica ascoltata. Terapeutico.
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