E Chicago effettivamente è sempre Chicago soprattutto se si parla in termini di jazz, sperimentazione e `sviluppo di un linguaggio` ma non potrebbe essere altrimenti in un posto del genere. In una recensione di Filiano/Adams di qualche settimana fa facevamo menzione dei Tortoise e tocca nominarli anche a questo giro visto che come avrete notato fra gli ospiti di questo disco a nome di Reed c`è anche quel Jeff Parker (e visto che Reed collabora con altri fuoriusciti del gruppo). Un altro strumentista `minore` (ma minore rispetto a cosa?) del sottobosco americano che non nasconde nelle note di copertina come sia sempre più attratto dalle sinergie piuttosto che da un disco in solo per batteria. Così questo afro-americano oltre a Parker sfodera altre due comparsate ad hoc, ognuna snocciolata su pezzi differenti e mai mescolate in insalata tanto che la più facile congettura è che pur declinando il disco di sola batteria non Reed non abbia voluto allontanarsi troppo dalla scheletricità della richiesta originale. Il risultato come è lecito aspettarsi rotola vorticosamente, ma sempre agilmente, sull`impro-free e senza marcare troppo sulla potenza tanto che se la negritudo del più celebre Coloman lo portava all`irruenza, invece Reed è composto contenuto e sofisticato. Riguardo la sofisticatezza delle soluzioni improvvisative del batterista ben si accompagnano agli interventi morigerati di Parker (e gli stessi Tortoise non sono un monumento alla discrezione?!). Free-jazz, dissonanze e che Bailey ce la mandi buona (anche se quel buon uomo forse qui avrebbe avuto una mano ben più pesante), e direi che da lassù Derek ha dato la sua benedizione visto che anche ogni combutta con Baker sembra altrettanto azzeccata. Direi che le evoluzioni in doppio con Mitchell siano la parte in un certo senso più tradizionale in un disco che comunque resta legato e ben amalgamato dall`inizio alla fine. Che sia lui uno di quegli elementi della rinascita chicagoana di cui parlano Vandermark e Gustavsonn?
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