Premessa sbrigativa necessaria: coi Baby Blue mi vien da essere fazioso e
bolscevico. Dev'essere per questo che ho arrancato per mesi prima di arrivare
a tirare due conclusioni sulla loro prima uscita 'vera'.
Andiamo al dunque. La domanda giusta non è «da dove vengono?», ma «a che punto
sono arrivati finora?». Risposta: si son già costruiti una mitologia da nani
e giganti, un repertorio facilmente individuabile che è riuscito a dare una
forma al rock latente in quegli ascoltatori che tornano a vederli in
concerto - cascasse il mondo, e anche se conoscono il canovaccio per filo e
per segno - e si piazzano lì come pere cotte a beccarsi in faccia il richiamo
sognante di So Much e complicazioni a margine come quelle di Hot Hand.
Per chi li conosce già (in Toscana sono eroi già da un pezzo. Pratesi, per
l'esattezza), questo EP è una breve parata di Grandi Classici opportunamente
rinfrescati che arriva a dama dopo un paio di (ottimi) demo d'avvicinamento.
Sei brani non bastano, ma certo aiutano a individuare i motivi di interesse e
le maschere da indossare per far paura ai fighi e fighetti dell'indie rock.
Va da sè che parecchi pezzi forti sono rimasti fuori, a evocare in piccolo il
dilemma del final cut cinematografico: in quanti modi si può decidere di dare
una forma ufficiale a un pensiero? Questo è uno. Ma «mi gioco una palla, due
no ma una sì» che per loro non è stata una decisione presa a cuor leggero.
Un fatto l'hanno capito fin da subito, e cioè che la definizione di un
carattere originale, oggigiorno - o tempora! -, può passare comodamente per
il giusto intreccio delle voci, telaio (malandrino!) che, nel loro caso,
davvero fa la differenza. Dopo due pezzi (River, come basta un accordo, uno
solo, piazzato nel posto giusto, per fabbricare una canzone; Ice Cream, un
inciso perfetto e il basso canterino che appuntano un ricamo atonale su un
tessuto melodico facile facile) fanno credere che stanno scherzando e tirano
fuori dall'armadio le tastierine delle medie (Alligator, favoletta ove si
lascia indovinare che per una volta Hänsel e Gretel, a Dio piacendo,
potrebbero anche finir male), giocano a fare gli spagnoli che vanno a
seminare progresso e distruzione nella giungla dell'Ucayali e te lo
spiattellano papale papale in Herzog, bel rock aggressivo & astioso
(proprio come Klaus Kinski) trafitto da inserti clandestini dal
film "Aguirre".
Seconda osservazione: sembra che abbiano scoperto il rock ierlaltro, Royal
Trux della domenica col coraggio di essere - come si dice in
Toscana - 'gnoranti. Leggi: primitivi ma non rozzi (certi vezzi
concediamoceli: i bei cambi di accento lungo Ice Cream, le già dette
scalinate notturne di So Much); scarni '70, non '90. Col bel risultato che
nel quarto d'ora del disco si incontra molto poco di accessorio. Il mixaggio
(lavoro appassionato di Paolo Benvegnù, ancora una volta sporco a regola
d'arte) si concede qualche trucchetto che, pur riuscendo a dar respiro alla
registrazione (in presa diretta, giusto qualche sovraincisione), non può
ancora render giustizia della 'rockesse' istintiva di questi quattro giovini.
Compiti per le vacanze: immaginarsi una risposta a questioni niente affatto
distanti dai traguardi ideali dei Baby Blue; per esempio, chi vince nello
scontro tra uomo e natura, rock'n'roll del sottobosco e Sistema Alternativo
Degenerato? E poi: riusciranno i nostri eroi a trasportare il bastimento al
di là del monte? Riuscirà Pizarro a scoprire l'Eldorado? Intanto, per quanto
mi riguarda, ho deciso di intascare questo EP come un promemoria per i tempi
bui; una miscellanea che, di fatto, non rende giustizia all'epica del
repertorio intero e, soprattutto, della nonchalance dell'approccio live
(contesto, quest'ultimo, in cui le cose sono ben cambiate lungo la trentina
di concerti del primo semestre 2007). Oppure immaginiamolo come una foto che
prende solo le teste, o come il catalogo di una mostra di scultura, per sua
natura privo di almeno un'unità dimensionale rispetto alla 'real thing'.
Alcuni cominciano ad ammoscarsene: vedi la Fondazione Arezzo Wave Italia, che
ha in parte finanziato la produzione dell'EP. Altri, adesso, li ricoprano
d'oro. O, perlomeno, gli facciano fare un disco.
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