Dopo le improvvisazioni del trio con Sean Baxter e David Brown, dopo le manipolazioni elettroniche del duo con Robin Fox, dopo le composizioni documentate nel disco su Tzadik e dopo altre interessanti collaborazioni, Anhony Pateras si presenta al traguardo del disco suonato in completa solitudine e lo fa, non poteva che farlo, con un lavoro per solo piano preparato. E, come da prassi, centra in pieno il bersaglio. Il suono di Pateras è come l`acqua: può cadere come una singola goccia o venir giù in forma di temporale, può scendere morbido come la neve o battere violento come la grandine, può dissolversi rapidamente come la nebbia o perdurare a lungo in forma di umidità , può essere sottile come la pioggia novembrina o può abbattersi con la violenza di un uragano, può scorrere placidamente come un fiume o precipitare come una cascata, può giacere in forma microscopica di molecola o dilagare come l`immensità di un oceano, e può anche far muovere legni, pietre e ingranaggi. E` un suono che brilla per dinamismo e per varietà di situazioni proposte, sia nell`insieme sia all`interno delle singole piste, nelle coloriture, nelle forme, nei giochi delle due mani, con il pianoforte che sembra farsi marimba, mbira o gong metallico. Pateras sa giocare con i silenzi come John Cage, con i ritmi come Cecil Taylor, con le risonanze come Charlemagne Palestine e con i chiaroscuri come Glenn Gould. Residue inizia come una sinfonia di percussioni metalliche, con variazioni di intensità e di colore, condotta comunque in modo sempre piuttosto torrido, anche quando nel finale si stempera in rarefatti rintocchi, con relativi giochi di risonanza, che in qualche modo mi hanno ricordato la Sonata per due pianoforti e percussioni di Béla Bartók. In Chasms, un brano intimamente cageano, le singole note si alternano a brevi frasi arpeggiate ottenendo una delicata fioritura di timbri che possono ricordare una marimba. Descent funziona per somma/sottrazione di sequenze ripetitive, e Steve Reich non avrebbe saputo fare di meglio, che puntano ad ottenere un muro di risonanze alla maniera di Charlemagne Palestine, e comunque termina dapprima in un fraseggio brioso alla Cecil Taylor e infine con alcuni ultimi singhiozzi protratti verso una dilatazione estrema. L`avevamo detto fin dall`inizio che Anthony Pateras è un geniaccio maledetto e oggi ne riceviamo puntuale la conferma.
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