Autore disco: |
Tom Carter & Robert Horton |
Etichetta: |
Digitalis Industries (USA) |
Link: |
www.digitalisindustries.com |
Formato: |
CD |
Anno di Pubblicazione: |
2006 |
Titoli: |
1) Steeljaguar for Rocket 2) Rocket #9 3) Launching Pad at Pooneil Corners |
Durata: |
47:16 |
Con: |
Tom Carter, Robert Horton, Janet Carter, Hal Huges, Henry Kuntz, rAh |
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tre momenti, tre brani: la lisergica improvvisazione di Carter e Horton |
x Matteo Uggeri |
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Senza Christina, compagna di vita e di musica (con lei divide il progetto Charalambides), Tom Carter si associa per questa uscita al sodale Robert Horton, con il quale il nostro aveva già divisio l`ottimo e bizzarro Lunar Eclipse nel 2004 ed alcune collaborazioni a più mani (Kyrgyz con anche Loren Chasse e Mudsuckers col mostro drone-noiser Yellow Swans). Anche qui l`incrocio tra l`improvvisazione radicale di Carter e la drone music di Horton riesce armoniosamente (se d`armonia si può parlare), intreccaindosi e scontrandosi su più piani. Tre quarti del disco sono occupati dalla splendida title track, 30 minuti che cominciano con droni chitarristici non lontani da Mazzacane-Connors per poi evolversi in un`esplosione di storto blues psichedelico condito da un`energia lisergica, emotiva, spaziale, spiazzante e potentissima. Impressiona l`uso di parecchi strumenti, spesso in modo più che improprio, dalla lap steel guitar al violino (di Hal Huges) fino ad improbabili elastici, `vox jaguar organ` e computer (non ravviso tracce di elettronica, ma nel marasma di suoni potrebbe esserci di tutto). La forma di caos strutturato (perdonate l`ossimoro) cui si abbandonano i musicisti qui coinvolti certo non solleticherà i palati di chi ama la musica nelle sue forme più pure, o di chi ricerca nel dettaglio della produzione uno stimolo all`ascolto (la qualità di registrazione è davvero scarsa). Qui tutto è impeto improvviso, a volte controllato, a volte lasciato completamente libero. Ne è esempio anche Rocket #9 (la cui durata si aggira sugli otto minuti), tra field recordings di `oche canadesi` (così è specificato nelle note), che ben s`intrecciano col sax impazzito di Henry Kuntz e con le percussioni violentate, in una forma free sporca e affascinante, e la conclusiva Launching Pad at Pooneil Corners, sinfonia per stridori assortiti, feedback di chitarra, synth (Dio solo sa dove, anche qui) e quant`altro. Compare perfino un misterioso rAh addetto a giradischi, computer (rieccoci!), percussioni, CD e onde sinusoidali.
E` chiara quindi la dinamica produttiva: chiudersi in una sala di registrazione (che se tanto mi dà tanto potrebbe essere il salotto di uno dei due autori) circondati da ogni sorta di strumenti e coadiuvati da alcuni amici musicisti. Quindi, suonare seguendo il più primordiale istinto. Il risultato, credetemi, è da ascoltare, soprattutto per chi non è avvezzo all`improvvisazione, come il sottoscritto. Sarà come viaggiare in un territorio extraterrestre, in una mente sovrumana. Splendido.
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