Ci credono così tanto i Sandoz Lab che è praticamente impossibile scrivere qualcosa di negativo su di loro. Intendiamoci: non c`è nulla da scrivere di negativo su di loro; sei album in tredici anni senza contare che dovunque si parla del fatto che finalmente il collettivo neozelandese riesce a produrre un album in maniera professionale con tanto di studio di registrazione riuscendo pur sempre a rimanere nell`estetica lo-fi che li contraddistingue. E gliene dobbiamo riconoscere il merito quando all`ascolto del loro ultimo lavoro veniamo avvolti da una spirale immensa e dilatata di strumenti, da un suono tanto perfetto quanto sinceramente liquido ed emozionante. Apre le danze quel piccolo incrocio di umori naturali che deve probabilmente un pezzo della sua esistenza alle nebulose sonore di synth messe in atto dai Supersilent: otto minuti di psichedelia virata all`interno della musica improvvisata, chitarre che sbrindellano note ed accordi, basso scalcinato e percussioni acquatiche. Questa è l`introduzione alle terre dell`ovest, un viaggio inimmaginifico che si apre a cavallo di un pianoforte dissonante letteralmente lacerato e allargato da sacrali colpi di gong e feedback di chitarra: l`intento chiaro del disco è quello dell`evocazione, nè è prova il titolo, ne sono prova i continui riferimenti alla psichedelia, ne è prova l`acqua suonata e registrata, ne sono prova i vari momenti che dividono i trenta minuti della traccia principale del disco, ovvero la seconda, ovvero quella di mezzo, una sorta di infinta landa sognante e ossessiva (e non ascolterete mai un secondo di musica nel quale non navighi vicino ad essa in senso di inquietudine ancestrale, quello legato alla terra e allo scorrere del tempo: che siano feedback, drones, oggetti concreti, tromba..) narrata e racchiusa dentro un incipit e una chiusa. E lo fanno mettendo in scena gran parte delle ipotesi sonore di questo tipo di improvvisazione: tredici anni non sono uno scherzo..
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