Immaginate dei segnali morse: braccia che si levano per aria, un gruppo di persone disperse nel deserto, scaraventate dentro una giungla marrone, che disperatamente chiedono soccorso. Immaginate che questi segnali morse sono dei telemessaggi onirici, e che più che un deserto dentro queste teste c'è un sogno morse con parole morse e con segnali morse e che il mondo come in “Mal” di Sexas Saintos sta finendo: la musica di Gianluca Becuzzi, a me, sempre più distintamente da qualche tempo, mi comunica la medesima consapevolezza di questi 'eletti' che in questo spazio invertito del cosmo s'accorgono, prima dell'umanità , che le cifre scompaiono ed il mondo esplode. E` musica per la fine dei tempi, quasi un'appendice alla razza neo-umana tanto decantata nell'ultimo messaggio psico-drammatico di Houellebecq della "Possibilità di un'isola" ma sferza verso impressioni degne di un "Incubo sulla città contaminata" di Stelvio Cipriani, tanto che questo messaggio diventa cine-patico, sfociando in una trascendentale irrealtà della fine: ed è così che i segni acquistano consapevolezza, e che la firma di un vero e proprio autore come lui, trova la sua identificazione permanente nel marasma incongruente dei messia dell'hi-tek o della digitale neu(e)rotica. Partorita in una commistione tra Burroughs e Kandisky, impreziosita dalle ascendenze fredde e catatoniche di un Maurizio Bianchi in salsa Lopez, l'ascesa cataclismatica del suono di Becuzzi, trova la sua esistenza su questo pianeta barcollante, la sua ragione forte non tanto nel singolo lavoro, che come in questo caso, raggiunge i suoi vertici più preziosi, ma nella continuità con cui l'opera, va a sussumersi nello spazio indecifrato della sua biografia oscura ed impercettibile. I lavori di Becuzzi, quasi per astinenza ed indeterminazione, nella loro matrice fredda e contemporaneamente vulcanica, ambiscono all'a-letheia e sono distanti troppi anni luce dai materiali geneticamente ambient e post-lopeziani, sia perchè sono segnati da una personalità chiara nel 'colpire', sia perchè sono freddamente lucidi nel loro candore esistenziale e binswangeriano, da psicopatologia dell'efficiente, e per questo, per le loro saturazioni bestiali, per la loro esponenziale cifra linguistica (come non riconoscere dentro questi drone delle voci che sussurrano molti codici da decifrare?) e per la loro ambiguità , mantengono un rapporto di filantropia con l'ascoltatore che di questi tempi, e con questi suoni, è davvero difficile mantenere. E` risaputo che un recensore, soprattutto in terreni antiformali come Sound & Silence, nel momento in cui si relaziona ad un'opera costantemente, come nel mio caso con il Becuzzi, sia in qualche modo compromesso in un dialogo silenzioso e commemorativo, con l'opera e con il suo autore. Questa credo sia la sesta recensione che vado ad affrontare, dopo quel pilastro di “Memory makes noise”, che si è rivelato col tempo, ma forse già dall'inizio, un'opera formidabile e densa di significati; con questo nuovo materiale, così tecnicamente spudorato e sinistro, la mia relazionee con la musica di Becuzzi, per fruizione, per contatto ma sarebbe meglio dire - per desiderio -, ha sfondato quel normale distanziamento, tipico di un'analisi. E c`è da dire che, se in Memory, l`autore tornava sui materiali della sua discografia prediletta, qui ritorna sulle sue origini e ricondiziona l`intera sua opera di una nuova stimolazione cinetica ed umana. Un disco d`avere.
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